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Silly Weird Songs

playlist dedicata a Paul McCartney aka Macca aka Paul McCrawfish nelle sue deviazioni più strambe, sperimentali e sempre stupende. praticamente McCartney che supera i Residents. ho fatto una selezione delle mie preferite. nota: non ho messo i fireman – progetto elettronico del maestro – perché non era solo ma era un duo (anche se, va detto, anche in alcuni dei pezzi qua presenti non era solo ma con sua moglie Linda, e con molte macchinine elettroniche). buon ascolto.

(Ricordo che queste playlist le faccio principalmente perché non uso spotify e così me le posso ascoltare dove voglio.)

Vedi anche: La Radietto

 

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Gli alieni sono nostri amici, gli alieni sono nostri fratelli

Se c’è una cosa che ha stancato è la rappresentazione pessimista del contatto alieno, soprattutto al cinema. Il contatto è visto quasi sempre come un’occasione di minaccia o di conflitto. Gli alieni di solito sono cattivi, e se non lo sono loro allora lo sono gli umani: insomma, di sicuro le cose andranno male. Oppure sono esseri incomprensibili e quindi non si riesce comunque a fare amicizia. I film dove gli alieni sono simpatici e collaborativi si contano sulle dita di una mano, e quando esistono spesso vengono confinati nel regno della commedia e dell’animazione per bambini, a dimostrazione che l’ipotesi non viene presa sul serio. Ma perché non immaginare storie in cui il contatto con una civiltà aliena rappresenta una reale occasione di crescita, scambio culturale e reciproco miglioramento? Trame in cui gli alieni non sono solo avversari o incomprensibili enigmi, ma amici e fratelli.

Credo sia così per vari motivi. Intanto il conflitto, il maledetto conflitto, è da sempre un motore narrativo. Le storie devono avere conflitto: due persone che si incontrano o si innamorano o fanno la guerra. Non è previsto che accada altro, se non molto raramente. Questo garantisce tensione e azione, e storie tutte uguali. Poi c’è ovviamente il fatto che la fantascienza riflette sul reale, sui temi sociali e politici. Dopotutto quando una parte dell’umanità ha scoperto degli alieni sul proprio pianeta, anno 1492, cosa ha fatto? Ha deciso di farci amicizia e inaugurare un’era di fratellanza? Non esattamente. Guerra, genocidio, violenza, sfruttamento, schiavitù. E poi la mania per la distopia. Tutto è distopia, distopico, distopicazzo. Scenari cupissimi influenzati da paure reali, da un continuo sottolineare quanto fa schifo il mondo: ma l’abbiamo capito, ce l’avete detto migliaia di volte, l’abbiamo capito davvero. Che senso ha fare ancora le città come quelle di Blade Runner? Perché non si rappresenta mai qualcosa di completamente diverso, cioè l’idea che, per citare un vecchio slogan, un altro mondo è possibile, che altre idee sono possibili?

E invece siamo bloccati nella distopia, figlia dell’era capitalista, in cui non si riesce a immaginare altro. E quindi gli alieni ostili diventano i simboli di minacce che l’umanità deve affrontare, e il problema del contatto con loro riflette le preoccupazioni globali e i dilemmi esistenziali. Sicuramente andrà tutto male, vedrai, perché gli alieni sono o cattivi o complicati e noi umani delle bestie violente sempre pronte alla guerra. È sempre stato così e quindi sarà sempre così. È un pensiero limitato e in qualche modo confortante perché poi ci affacciamo alla finestra e vediamo che le cose in buona parte sono così e siamo contenti di avere ragione. Ma le cose sono proprio così?

Mi vengono in mente i polpi. A volte gli alieni sono stati rappresentati come polpi e i polpi sono stati definiti in un certo senso alieni per la loro strana intelligenza. Ma a parte i pescatori, la maggior parte degli esseri umani quando incontra un polpo che fa? Io ne ho visto diverse volte e non ho mai tentato di ucciderli, né loro hanno tentato di uccidere me. C’è perfino un bellissimo documentario, My Octopus Teacher, dove un tizio stabilisce un rapporto di amicizia con un polpo. Oppure penso ai cani: ok, sono mammiferi come noi e sono molto sociali, ma per il resto sono animali completamente diversi. Eppure ci andiamo d’accordo, c’è una lunga storia di coevoluzione umani-cani, ci viviamo assieme, ci scambiamo gesti d’affetto, ci giochiamo, comunichiamo. Praticamente quasi un rapporto di simbiosi. Perché non dovremmo farlo con un alieno? Alla scienza e alla fantascienza piace pensare che gli alieni siano creature totalmente lontane da noi, come le piante. Ma anche con le piante la maggior parte di noi ha un rapporto di coesistenza pacifica. Ce ne prendiamo cura, le guardiamo, c’è perfino chi ci parla e un mio amico mi ha detto che a lui le piante danno quanto un animale domestico. E se gli alieni fossero piante? Non potrebbero essere i nostri fratelli e le nostre sorelle? O tornando ai mammiferi: il mio gatto è per buona parte del tempo misterioso e incomprensibile, eppure sento che abbiamo un rapporto, uno scambio, e viviamo praticamente in simbiosi – a volte addirittura ci scaldiamo a vicenda. E i gatti sono un po’ alieni. C’era anche il film della Disney, Il gatto venuto dallo spazio.

Insomma ok, c’è la deforestazione, molti animali vengono uccisi, macellati e mangiati, ma buona parte delle persone non fa niente di tutto questo e ci vive pacificamente. Questo significa che rapporti di scambio e rispetto tra esseri diversi sono possibili e già esistono. Mentre nelle opere di finzione questo sembra praticamente impossibile.

Ma immaginiamo gli alieni più simili a noi umani, sociali e tecnologici. Si potrebbe immaginare una fratellanza e amicizia con gli alieni basata su un rapporto fondato sulla curiosità reciproca, la comprensione e la cooperazione. E non solo nel nome del comunismo, come volevano i Men in Red di Ufologia radicale. Non ci dovrebbero essere solo scambi culturali, politici e tecnologici, ma anche emotivi e spirituali. Senza che questo significhi per forza sterminio e distruzione, come in Avatar. Non si tratterebbe solo di un esercizio narrativo controcorrente, ma di un’opportunità per immaginare mondi alternativi che ci incoraggino a ripensare il nostro posto nell’universo. Se un alieno ha sette sessi diversi in continua evoluzione secondo schemi apparentemente random e non conosce il concetto di autorità e gerarchia, non sarebbe un’amicizia proficua? Un contatto così radicale potrebbe rappresentare un’occasione per espandere la nostra comprensione del possibile, offrendo una prospettiva completamente inedita sull’universo e su noi stessi.

Pensare a quello che già succede sul pianeta, ad esempio con le famose tribù non contattate (dagli occidentali, si intende) o appunto con gli altri animali, ad esempio i pesci, non serve, è limitato: siamo sempre dentro il quadrato, dentro il “era così, è così adesso e quindi sarà sempre così”. Sempre fermi alla guerra di tutti contro tutti di Hobbes che giustifica lo stivale della polizia/esercito/stato. Perché gli altri sono sicuramente delle merde e probabilmente lo sei anche tu.

Forse una tendenza che un po’ si differenzia da questo genere è il solarpunk, dove si immagina un possibile futuro armonioso pieno di orti e pale eoliche, ma non lo conosco abbastanza e non so se ci sono racconti dove si parla anche di amicizia con alieni e cooperazione interspecie. In più mi sembra che l’eccessiva fiducia nella tecnologia che risolve tutto sia anche quella una visione limitata e molto a rischio di riassorbimento nel capitalismo, ovviamente verde. Ma questo è un altro discorso.

Ovviamente, chiunque potrebbe obiettare che le storie pessimiste, fatte di invasioni terribili e guerre, siano semplicemente più avvincenti. Ma questo accade perché non abbiamo avuto abbastanza alternative che esplorino scenari diversi. Libri ma soprattutto film si sono concentratati quasi esclusivamente sulla paura dell’ignoto, sulla minaccia e sul conflitto, creando un immaginario collettivo noioso e ripetitivo. Di storie diverse ne sono state raccontate pochissime: non è che sono meno avvincenti, è che praticamente non esistono. Immaginare qualcosa di diverso è più faticoso ma molto più stimolante. E anche più scomodo per il sistema: che le persone siano in grado di immaginare di poter vivere senza paura, in armonia, cooperando con gli altri – altri nel senso più esteso del termine – senza bisogno di autorità, del presidente degli stati uniti e degli eserciti, è un’idea pericolosa. E invece mantiene lo status quo l’idea che autorità, stati ed eserciti siano necessari per difenderci da ipotetiche minacce, come se non potessimo vivere senza. Quindi non solo alieni cattivi: ma anche un’umanità senza speranza, incapace di coesistere con altre specie, soprattutto se provenienti da altri pianeti.

Per una filmografia del contatto positivo: Incontri ravvicinati del terzo tipo, Contact, in un certo senso 2001 (alieni enigmatici e perfino assenti, ma il contatto è positivo), forse Cocoon, Il pianeta verde, e soprattutto tantissime puntate di Star Trek, in particolare Star Trek TNG, dove c’è perfino la Federazione dei pianeti uniti, e sono davvero tanti gli episodi dove proprio l’amicizia tra specie molto diverse, magari dopo un’iniziale diffidenza, è un modello di comprensione e collaborazione.

L’immagine sopra è un poster che ho avuto nella mia camera per tutta l’infanzia/giovinezza e che forse, assieme alla visione di Star Trek, mi ha un po’ influenzato.

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Piano di riconversione dei ricchi

Che ce ne facciamo dei ricchi? Ora, è chiaro che sono completamente inutili per le società. Sono pazzi accumulatori compulsivi, sfruttatori e inquinanti per il pianeta. Ma potrebbero essere utili? Quando un oggetto mi sembra inutile, invece di buttarlo, preferisco immaginargli una seconda vita, un nuovo utilizzo, restando fedele al principio di Riduci, Riutilizza, Ricicla. Proviamoci con i ricchi.

Conversione in biocarburante. È la soluzione più ovvia: potrebbero essere usati per alimentare stufe. Oppure come compostaggio umano, cioè trasformarli in fertilizzante per i terreni agricoli, contribuendo simbolicamente ma anche letteralmente a nutrire la società che hanno sfruttato. Contro: i ricchi sono tanti ma non tantissimi, quindi usare l’1% della popolazione come compost o fertilizzante alla lunga non è una soluzione.

Usarli come balle per funghi. I ricchi verrebbero compressi in balle assieme a una miscela di cellulosa e denaro triturato. I funghi poi sarebbero inoculati nel substrato e lasciati in ambienti umidi e ombreggiati. Ogni ricco potrebbe produrre decine di raccolti, rigenerandosi più e più volte e chiudendo un ciclo che trasformerebbe il superfluo in nutrimento reale.

Pale eoliche umane. Mettendoli in equilibrio uno sopra l’altro, dopo ore di allenamenti di ginnastica artistica e arti circensi, potrebbero costituire delle pale eoliche umane per generare energia dal vento. Alternativa: convertirli in pannelli solari modificando la pelle in modo da rendere possibile la fotosintesi, quindi disporli sui tetti per accumulare la luce solare e convertirla in energia.

Generatori umani. Siccome di solito sono in salute e hanno spesso personal trainer che li tengono perfettamente in forma, i ricchi si potrebbero collocare in apposite centrali ciclistiche su cyclette collegate a generatori per alimentare le città. Le lacrime e il sudore prodotti, che contengono sali minerali, potrebbero essere estratti e impiegati in agricoltura per arricchire il terreno, favorendo una fertilizzazione naturale e sostenibile. È un esempio di economia circolare.

Capitalocene park. È un parco tematico dove i ricchi, simili a dinosauri estinti, sono esposti in una riproduzione artificiale del mondo che loro stessi hanno creato. Il parco ospiterebbe scenografie iperrealistiche con grattacieli, yacht di lusso e ville esclusive, come se fossero rarità da osservare in uno zoo futuristico. I ricchi-sauri sarebbero separati dal resto della società, dopotutto come piace a loro. Per evitare interazioni troppo ravvicinate sarebbe severamente vietato lanciare cibo o denaro per attirare i ricchi verso le reti di sicurezza. Il parco rappresenterebbe un’occasione di riflessione e intrattenimento anche per i più piccoli.

Lavori estremi. Sempre sfruttando la loro buona forma fisica, potrebbero essere usati come stuntman nelle scene più pericolose dei film, risparmiando sugli effetti speciali. Ad esempio: cadere da grattacieli, scappare da esplosioni o lanciarsi da un aereo senza paracadute. Potrebbero lavorare anche come artificeri per smantellare mine antiuomo o esplosivi lasciati in zone di conflitto. Inoltre, potrebbero essere sfruttati per lavori di recupero in ambienti ad alta radioattività, come attori di snuff movie o nell’agricoltura come spaventapasseri umani.

Droghe. Poteva mancare la droga? Si potrebbero estrarre dai loro corpi componenti per produrre sostanze psicotrope come la DMT, presente naturalmente nel fluido cerebrospinale umano e in altre parti del corpo. C’è anche l’aspetto divertente di poter dire “oh, mi sono fumato Mark Zuckerberg! Che trip!” o “Prova questo estratto di Jeff Bezos, è potentissimo”. Contro: considerata l’origine della sostanza è alta la probabilità di bad trip.

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Masterchef

“Vieni avanti”

Il concorrente poggia sul piano un piatto di arrosto di vitello glassato al miele con contorno di barbabietola affumicata. Lo chef assaggia lentamente.

“Che cos’è questa merda?”

Il concorrente non risponde, inizia a sudare.

“Guarda questo vitello! Guarda il colore! Sembra merda. Tu hai figli?”

“Sì chef”

“Gli daresti da mangiare questa merda?”

Il concorrente non risponde, con un gesto veloce della mano si asciuga una lacrima prima ancora che fuoriesca.

“Questa barbabietola sembra mestruo di un mese fa. Il mestruo fresco almeno è buono! Questo è mestruo di un mese fa! Fa schifo!”

Il concorrente inizia a tremare. Lo chef lancia la forchetta sul piatto, schifato.

“Questo è un affronto personale. Tu non mi puoi far assaggiare un piatto così di merda. Sei… sei un idiota”

“Sì chef”

“COSA HAI DETTO?”

“Sì chef!”

“Torna al tuo posto, prima che mi arrabbi davvero.”

Il concorrente si volta, e appena date le spalle allo chef inizia a piagnucolare. Lo chef scuote la testa. Arriva un altro concorrente che presenta allo chef un piatto di spaghetti aglio e olio molto abbondante.

“Scusa, quanti grammi di pasta hai fatto?”

“500 grammi”

“500 grammi… non hai dimenticato niente?”

“No”

“Sicuro? Devi dire chef”

Il concorrente sorride.

“NON RIDERE IN MIA PRESENZA! NON PUOI PORTARMI MEZZO CHILO DI PASTA AGLIO E OLIO, BRUTTO IDIOTA IO TI…”

Lo chef cade a terra colpito alla gola da un unico fendente di un coltello da cucina giapponese da 18 cm. Nello studio si sente un grido di paura, ma parte anche un applauso. Il concorrente pulisce il coltello sul grembiule, poi si mette in favore di telecamera.

“Non sono violento, ma a volte è necessario esserlo. È autodifesa. Compagni, sorelle, fratelli! Oggi dichiariamo la fine di un’epoca oscura, di secoli di catene invisibili che ci hanno oppresso, di gerarchie velenose che hanno diviso gli esseri umani tra padroni e servi. Oggi spezzare queste catene non è più un sogno. È il nostro imperativo, il nostro atto di ribellione finale contro l’ingiustizia e l’autorità che ci schiaccia. Ogni figura che si erge al di sopra di un altro essere per comandarlo è un parassita, un tumore nella carne viva della libertà. Ogni autorità è una gabbia. Ogni gerarchia è un veleno. Dichiaro la fine di ogni forma di dominio! Dichiaro la morte dello Stato e del Capitale! Da domani non esisteranno più prigioni, eserciti, polizia. Da domani non ci saranno più decreti o ordini, né confini, né padroni, né schiavi. Da domani non accetteremo più né obbedienza né sottomissione. È la fine del dominio degli uomini sugli uomini e degli uomini sugli animali.”

Dal fondo dello studio uno dei concorrenti alza la mano.

“Dimmi”

“Vuol dire che non dovremo più cucinare carne?”

“No, da domani tutti vegani. Niente più arrosto di vitello glassato al miele.”

“Posso fare l’arrosto di seitan? Io non l’ho fatto perché avevo paura dello chef”

“Potrai fare quello che vuoi. Perfino il muscolo di grano. Il polpettone di lenticchie. O la bistecca di funghi. Perfino il tofu. Quello che vuoi.”

Il concorrente sorride soddisfatto.

“Il punto è che ci hanno mentito! Hanno cercato di convincerci che senza di loro saremmo nel caos, che avremmo bisogno di chef, re, presidenti e capi per governarci, che la loro mano pesante fosse necessaria per garantire ordine. Ma guardate il loro ordine: un ordine fatto di insulti, guerre, povertà, fame e distruzione. Questo non è ordine. Questo è il loro caos. Il vero ordine nasce dalla libertà. Nasce dalla cooperazione, dalla solidarietà spontanea, dall’aiuto reciproco. Non abbiamo bisogno di loro! Non abbiamo bisogno di leggi imposte con la forza, né di gerarchie che si appropriano del frutto del nostro lavoro. Da oggi decidiamo insieme, da pari, senza capi, senza padroni.”

Dal fondo dello studio un cameraman alza la mano.

“Prego”

“Non potremmo farlo tramite delle riforme?”

“Riforme? No! Questa rivoluzione è totale, senza compromessi. Non accettiamo riforme, non accettiamo trattative, non accettiamo il lento e velenoso compromesso del potere. Non abbiamo bisogno del permesso di nessuno per essere liberi. La libertà non si mendica: si prende! Non aspettate il consenso dei tiranni per rovesciarli. Non aspettate l’autorizzazione delle istituzioni per abbatterle. Le istituzioni muoiono quando smettiamo di obbedire. E oggi noi smettiamo.”

Il cameraman sembra perplesso.

“E il programma? Ora che hai ucciso lo chef come facciamo?”

“Faremo insieme, amico mio. È finita l’era dei tiranni in grembiule, dei despoti che urlano ordini come se il nostro sudore fosse il loro diritto. La cucina non è un campo di battaglia, e noi non siamo soldati al servizio di uno chef che si crede un re. Dichiariamo la fine degli chef autoritari! Basta con i soprusi, basta con il terrore. Non esiste creatività sotto il pugno di ferro, non esiste passione sotto il peso delle gerarchie. La cucina deve essere un luogo di collaborazione, di ispirazione, non una prigione di insulti e paura. Da oggi decidiamo insieme, impariamo l’uno dall’altro, cuciniamo come pari. Il sapore migliore nasce dalla libertà, non dall’autorità! E non dobbiamo più dipendere dai complimenti di uno chef, che sia duro o simpatico. Molti si accontentano quando lo chef è buono e sorride, ma quella è ancora una forma di dipendenza. Un bravo chef è comunque un padrone, un capo che detiene il potere su ciò che cuciniamo, su come ci esprimiamo. Non vogliamo più vivere cercando il consenso di un’autorità, perché il vero valore della cucina sta nell’essere liberi di esprimere la nostra passione senza cercare la grazia di qualcuno che si mette sopra di noi. Da oggi, siamo noi a dare valore al nostro lavoro, e il nostro giudizio è il solo che conta. Non più padroni, solo compagni.”

Il giorno dopo Masterchef diventa uno show antiautoritario. Si apre con i concorrenti che spiegano che cucinare è un atto politico e culturale. Si parla di autogestione alimentare, di combattere lo spreco di cibo, di democratizzare l’accesso al sapere culinario. Non esiste più un vincitore individuale, tutti collaborano al meglio delle proprie possibilità e nessuno viene eliminato. Vengono inventate nuove tradizioni, si improvvisa, si sperimenta. Le ricette sono tutte vegane: l’ultima carne cucinata nella cucina di Masterchef è quella dello chef sgozzato (servito con contorno di barbabietole affumicate). Nella prima puntata i concorrenti devono progettare e preparare un banchetto completo per un campo rom. Decidono collettivamente il menù, si dividono i ruoli e collaborano per preparare i piatti. Durante il servizio parlano con gli ospiti, spiegando le ricette e condividendo storie. Alla fine ballano tutti, ubriachi e soddisfatti.

Tutte le edizioni di Masterchef vengono trasformate e ovunque scompare l’autorità. “Sì chef” viene usato come meme per ricordare ironicamente i tempi bui. Un mese dopo non esistono più la maggior parte degli Stati. Ovunque si fondano comuni autogestite, consigli e assemblee popolari, reti di scambio, collettivi, laboratori, strutture temporanee. Ovunque si sperimenta. Nelle fabbriche e negli uffici prendono il controllo gli operai e gli impiegati. Poliziotti e soldati vengono convertiti in cosplayer, traslocatori, addetti all’attraversamento sulle strisce pedonali, detective di gatti smarriti.

Gli spaghetti aglio e olio vengono preparati in tutte le mense popolari e diventano un simbolo della rivoluzione. A tutti, bambini compresi, viene servita una porzione da 500 grammi. Chi vuole può aggiungere anche peperoncino. O prezzemolo. O salsa di soia. O burro d’arachidi. Nessuno si scandalizza, tutti si divertono.

Con l’eliminazione, per constatata inutilità, dello Stato e del governo, le persone si sentono ancora più libere di drogarsi. Con l’abolizione di leggi oppressive e l’affermazione di una visione collettiva della libertà, l’uso degli psichedelici diventa parte integrante della cultura per espandere la coscienza. Viene promossa l’auto-esplorazione e l’armonia collettiva. I funghi e l’LSD diventano strumenti di riflessione e meditazione, usati per sballarsi ma anche per sperimentare stati di coscienza che favoriscono la connessione universale. Gli allucinogeni vengono utilizzati ovunque per prendere decisioni, favorire empatia e connessione con gli altri (persone, animali, vegetali, minerali), facilitare la risoluzione di conflitti e il superamento di traumi. Gli psichedelici col tempo rafforzano il tessuto sociale, spingendo le comunità a collaborare e prendersi cura del bene comune. Amplificano anche il senso di appartenenza alla natura e l’interconnessione. Le persone, grazie a queste sostanze, sviluppano nuove idee in arte, scienza e tecnologia. Altre semplicemente si sballano e si divertono. Nascono nuovi strani generi musicali e meme sempre più incomprensibili.

Nel giro di sei mesi la rivoluzione si espande ovunque. In tutti i cinque continenti, in tutti i 60 paesi in cui va in onda Masterchef. Ovunque le persone sono finalmente libere e strafatte. Vengono stampati i libri di storia dove si racconta del misterioso concorrente che ha messo fine alla tirannia degli chef. È misterioso perché, dopo quella memorabile puntata, è scomparso e non ha mai parlato di sè. Si dice che queste siano le sue ultime parole, pronunciate mentre lasciava lo studio di Masterchef:

“Io non sono nessuno. E questo è il punto. Non sono un nome, non sono un volto, non sono un eroe. Sono una parte di voi, come voi siete parte di me. Il cambiamento non ha bisogno di leader, né di simboli, né di idoli. Dicono che gli eroi siano necessari, ma gli eroi creano seguaci, e i seguaci ricreano padroni. Io non voglio essere seguito, né ricordato. Non esisto per ispirare, ma per dissolvermi. Il mio nome non conta, perché non c’è un ‘me’. Non sono altro che il riflesso delle vostre lotte, delle vostre speranze. Se cercate un leader, siete ancora prigionieri. Se vedete un’idea e la fate vostra, allora siete liberi. Non chiedetemi chi sono. Chiedete chi siete voi. Perché il futuro non ha bisogno di un nome. Ha bisogno di tutti noi. E buon appetito!”

A un anno dalla messa in onda di quella puntata di Masterchef l’autorità e il Capitale sono ormai dei ricordi di un passato lontano. Elon Musk, spogliato di tutti i suoi beni (ridistribuiti alla collettività) viene spedito da solo su Marte. Gli yacht dei ricchi vengono usati per salvare i migranti in mare o organizzare festini a base di funghi, mdma, ketamina e LSD. Le collezioni d’arte diventano accessibili a tutti. Le limousine vengono usate come navette per collegare i numerosi orti condivisi o in sostituzione degli scuolabus. Jeff Bezos diventa un abilissimo giardiniere di parchi pubblici. In Europa c’è un aumento del 900% delle coppie miste, del 1500% dei vegani e del 3800% della creazione di musica incomprensibile. Non esiste più il concetto di lavoro salariato: ogni individuo contribuisce secondo le proprie capacità, e le risorse vengono distribuite in modo equilibrato tra le persone. Chi vuole, può non lavorare. Le città sono sempre più verdi, ovunque aumenta la biodiversità. Non esiste più il copyright, la cultura è libera, tutto può essere scaricato, riprodotto o remixato: si supera il concetto di proprietà culturale. Le prigioni vengono convertite in discoteche, spazi per rave e festival musicali, rifugi per cinghiali e uccelli e divertenti escape room. Tutte le risorse che prima venivano impegnate nell’esercito vengono trasferite sui progetti di contatto di civiltà extra-terrestri. Milioni di persone un tempo legate all’industria bellica vengono riqualificate nell’ingegneria interstellare, criptografia cosmica (per decifrare messaggi alieni), lingue universali e semiotica extraterrestre. Filosofi e antropologi studiano l’etica del contatto alieno. La preparazione al contatto entra nelle scuole, insegnando pensiero critico, scienza e cosmologia. L’intelligenza artificiale viene usata esclusivamente per l’interpretazione e la creazione di messaggi inter-specie. Ogni settimana si svolgono simulazioni per addestrare squadre di contatto, composte da scienziati, artisti, antropologi, linguisti e psicologi. In tutte le edizioni di Masterchef c’è una puntata speciale dove si preparano ipotetici piatti da servire agli amici alieni. Gli chef devono creare piatti che non solo stupiscano, ma che siano anche comprensibili e appetibili per specie che potrebbero avere biologie e sensi totalmente diversi. Viene preparata una versione speciale degli spaghetti aglio e olio per alieni fotosintetici, e anche una in forma gassosa.

Dopo un anno e mezzo si arresta il riscaldamento globale. In tutto il mondo si festeggia con feste, canti e balli. La notte di Natale, proprio allo scoccare della mezzanotte, arriva finalmente un messaggio alieno. Viene immediatamente distribuito a tutte le comunità di tutto il pianeta. La risposta non viene gestita da una sola autorità (non esistono più), ma da gruppi di persone che condividono il messaggio tramite tecnologie aperte e accessibili a tutti. Nel giro di un mese si elabora una risposta: vengono allegate anche 127 versioni della ricetta degli spaghetti aglio e olio. Gli alieni a sorpresa apprezzano particolarmente le ricette n.18 e n.54 e dichiarano di amare la musica techno. Viene finalmente organizzato l’incontro con il collettivo interplanetario. Come messaggio di benvenuto viene scelto un testo scritto da una task force formata da un gruppo di fattoni e i bambini e le bambine di una quinta elementare. Si parla di fratellanza tra le stelle, amicizia, libertà, interconnessione, dinosauri, patatine fritte e gelati. Viene mostrato agli alieni lo scheletro dello chef sacrificato due anni prima e conservato in uno strampalato museo dell’autorità (simile ai nostri attuali musei della tortura), dove sono esposte anche le statue di cera di governanti, giudici e capi d’azienda. Si apre un’era di festa universale e intergalattica. Gli alieni si nutrono principalmente di spaghetti aglio e olio, anidride carbonica e metano, riducendo ancora di più le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera terrestre. Visitano tutto il pianeta, le città, gli orti, le scuole, le discoteche (ex prigioni), le foreste e anche i paesini di provincia che normalmente non considera nessuno. Il mondo diventa un luogo di scambio e crescita collettiva interplanetaria. Il contatto con gli alieni non porta solo conoscenza, ma anche una nuova percezione di ciò che è possibile quando le divisioni tra le specie vengono abbattute. Nascono religioni che venerano i licheni. Le comunità si evolvono in spazi ancora più inclusivi, con i migranti spaziali che giungono da vari angoli della galassia. Le scuole diventano centri di apprendimento multidimensionale, dove non solo si insegnano scienze, filosofia e arte, ma anche metodi per entrare in sintonia con l’universo, attraverso rituali collettivi, esplorazioni psichedeliche condivise e dialoghi interspaziali. Ci sono le prime coppie miste intergalattiche e i primi meme alieni. Si creano anche orti cosmici, in orbita, dove si coltivano grano, aglio e olive per fare gli spaghetti aglio e olio. Le foreste terrestri, già in recupero grazie agli sforzi di tutta la popolazione globale, iniziano a ospitare specie aliene che, grazie alla loro capacità di adattarsi rapidamente, coesistono con la nostra fauna, creando un ecosistema interplanetario perfetto. La ricerca scientifica prosegue, ma non più con l’idea di dominare l’universo, ma di collaborare con esso. Si esplorano universi paralleli, dimensioni sconosciute, e forme di vita che nessuno aveva mai immaginato. Le tecnologie vengono usate non per distruggere o dominare, ma per creare armonia, per vivere in sintonia con tutto ciò che ci circonda e per creare nuove incredibili droghe. È l’inizio di un ciclo cosmico di pace e amore universale.

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Salutava sempre

Wire, cramps, xtc, white stripes, clash, david crosby, tom waits, ozzy osbourne, brian wilson, david byrne, neil young, johnny cash, beth gibbons, skip spence, elvis costello, e poi un sacco di canzoni italiane anni 60/70 (ma non i cantautori): tutta musica che ho ascoltato, comprato o scaricato perché me lo diceva lui.

poi i film, ovviamente moltissimi libri, e anche cocktail. per anni mi diceva di ascoltare, leggere o bere una cosa e io lo facevo. avevo 17 anni quando praticamente mi obbligava a scrivere. non faceva mai complimenti, mi diceva solo di scrivere, e io lo facevo. anche perché se no mi minacciava.

di solito ci si vergogna un po’ delle cose scritte in gioventù. io no, forse anche perché avevo lui come editor.

un salto nel tempo, qualche anno fa, a un festival di letteratura a cui incredibilmente ero ospite. alla stazione mi viene a prendere un giovane con l’auto elettrica, uno dell’organizzazione. nel tragitto parliamo, gli chiedo se ha conosciuto scrittori famosi o che si credono famosi, così, nella speranza di scoprire qualche aneddoto curioso, ma resto deluso. il giovane non era rimasto stupito da nessuno, anzi sì, da una sola persona.

se lo ricordava come divertente e soprattutto molto gentile.

“è molto educato, non come altri”

“io lo conosco”

“davvero? arriva domani”

“purtroppo non lo vedrò. me lo puoi salutare?”

“va bene, cosa gli dico?”

e qua non mi ricordo bene. so solo che volevo essere originale e credo di avergli detto di riferirgli che era un vecchio di merda, così, per ridere. chissà se quello poi l’ha fatto davvero. forse no.

un salto indietro: andavo all’università, o meglio non ci andavo. mi drogavo e mi innamoravo, poi prendevo treni notturni e finivo a roma a casa sua. lui mi prendeva in giro per com’ero vestito ma allo stesso tempo mi accoglieva come un ospite d’onore, come credo facesse con tutti. ricordo gin tonic preparati secondo un metodo scientifico, che mi spiegava passaggio dopo passaggio, pranzi e cene eccellenti, film visti insieme sul divano intervallati da marlboro rosse, che a me servivano un po’ per darmi un tono, ma per lui erano normale amministrazione.

una volta mi portò a una cena ai parioli in casa di 30/40enni borghesi, e lui sfotteva tutti, me compreso, con grande eleganza. mi prendeva per il culo perché a una cena così io indossavo un pigiama. ed era vero, la parte di sopra era davvero un pigiama che io trovavo molto chic. lui ci teneva molto allo stile, ma pure io, a modo mio.

un’altra volta, altro treno notturno, parto da casa in pieno inverno febbricitante, ridotto davvero malissimo. arrivo a casa sua e vengo immediatamente soccorso: letto comodo (cioè senza coinquilini e amici tossici intorno), coperte, tisane calde, sonno ristoratore, film da vedere sul divano. mi sembrava di essere morto ed essere arrivato in paradiso. “puzzi” mi aveva detto.

all’epoca casa sua per me era come un ospedale pieno di libri e cd.

per almeno un decennio, ma forse anche di più, commentava ogni mia uscita pubblica con la frase “zitto mp”. qualsiasi cosa dicessi, scrivessi o facessi. zitto mp. spesso era proprio lui a chiedermi di scrivere, ma poi: zitto mp. però leggeva sempre.

poi per qualche anno, in verità parecchi, non abbiamo quasi avuto contatti. così diventò un amico di internet e di treni notturni scomparso dai radar. beh, non del tutto. ovviamente lo leggevo, leggevo i suoi libri, i suoi post, ma non sempre glielo dicevo. cose che capitano, e la maggior parte delle volte senza motivo. pensavo: un giorno ci rivedremo.

e ci siamo rivisti, ma in webcam, un anno fa, di nuovo a parlare di libri e di scrittura. lui era sempre bravissimo a prendermi per il culo ma anche disponibile ad aiutarmi in un momento di difficoltà.

(va detto che “momento di difficoltà” riassume la mia intera esistenza fino ad oggi).

questa cosa la ripeto perché è importante: era davvero un momento di merda per me, non so come l’avesse saputo, ma si era dimostrato ancora una volta molto gentile e sensibile. non era scontato e non mi era dovuto. a dire la verità nemmeno me l’aspettavo. non me lo ricordo, ma spero almeno di averlo ringraziato.

(se non l’ho fatto, ora mi sa che è troppo tardi.)

certo, non era come vedersi dal vivo, ma era bello parlare attraverso lo schermo, a volte di singole parole o di una virgola che forse non andava in quel punto ma un po’ più avanti. cose che per lui erano questioni importanti. come un cocktail fatto bene.

e va bene, si dirà che la vita è così. ed è vero, lo so, lo sappiamo e scommetto che lo sapeva anche lui. ma siccome non considero la famiglia solo un fatto di sangue, lo metto tra i miei antenati, pronto a essere evocato ogni volta che sentirò un certo disco, leggerò un certo libro, sentirò fare una certa battuta, berrò un certo gin tonic.

bonus malinconia: non volevo essere malinconico, perché non lo sono davvero, però devo riportare anche questa cosa. dopo aver saputo della sua morte mi sono andato a leggere un po’ di mail che ci eravamo scambiati.

ce n’è una dove lui mi aveva mandato una cosa che aveva scritto (strano perché non lo faceva mai: sapeva che gli altri lo leggevano, non c’era bisogno di chiederlo) e io a mia volta una cosa che avevo scritto io. ci scambiamo complimenti, o meglio, lui mi insulta come sempre, io gli faccio i complimenti (però mi dice anche “sei bravo”).

per curiosità ho cliccato sui link per vedere di cosa si trattava ma non sono più disponibili. sono scomparsi. non saprò mai di cosa parlavamo. questa credo sia l’impermanenza: le cose scompaiono, resta il ricordo, e a un certo punto il ricordo del ricordo. anche questa è la vita, mi si dirà. sì ok, ma.

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Libertà finanziaria

“Be’ al paese nostro” disse Alice con un po’ di fiatone, “in genere si arriva in un altro posto .. se si corre per tanto tempo come abbiamo fatto noi.”
“Che paese lento!” disse la Regina. “Qui invece, devi correre più che puoi, per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche altra parte devi correre almeno il doppio”.

In un video un ex consulente finanziario che assomiglia a una versione hippy di Beppe Grillo spiega ai giovani di non pensare solo ai soldi e al lavoro. Dopo trent’anni di lavoro h24 ha avuto l’illuminazione. Ora gira a piedi nudi, vive in una roulotte alimentata da un impianto fotovoltaico in un terreno che ha comprato con “una parte dei miei risparmi”. Spiega che prima di fare questa scelta ha messo da parte 140mila euro, “e invece di comprare una casa e continuare a lavorare ho deciso di vivere” dice sorridente fissando la videocamera.

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Un 28enne al momento disoccupato, dopo decine di lavori sottopagati, stressanti e alienanti, trova il blog di uno che spiega come vivere senza lavorare. Dopo circa 30mila caratteri arriva a un paragrafo dove l’autore del blog fa degli esempi: sono tutte di persone che hanno lasciato un lavoro in Italia per andare a fare un lavoro a Bali o in altri paesi poveri, “dove si vive meglio, in allegria”. In sostanza sono passati da un lavoro a un altro, semplicemente si sono delocalizzati in un luogo dove conviene, come fanno le aziende. Il 28enne guarda le foto di queste persone sorridenti “che vivono tutto l’anno in infradito”, i suoi occhi scendono verso il basso, anche lui ha le infradito. Accende il bong e mette una puntata di Vikings su Netflix.

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Un impiegato di Tecnocasa è davanti alla tv mentre mangia 80 grammi di riso integrale, 150 di pollo e 100 di zucchine grigliate davanti alla tv. Nella sua libreria libri sulla crescita personale e un romanzo che gli ha regalato la sua ex ragazza prima che si lasciassero e che non ha il coraggio di leggere. Dedica il suo tempo al lavoro, ma riesce solo a sopravvivere. E’ felice quando riesce a comprare il pollo in offerta, a 4 euro al kg, o anche meno. In quei casi ne prende più pacchi che mette nel congelatore. La sera di solito guarda video motivazionali su Youtube e TikTok, ma oggi sta guardando un canale di notizie dove vengono mostrati scontri di piazza. Vede degli incappucciati distruggere una vetrina di Gucci e scrivere a fianco con una bomboletta una frase contro il capitalismo. L’impiegato si incazza, inizia a parlare da solo e a inveire, “maledetti stronzi” dice. Si sente come se quella vetrina Gucci fosse sua. Non commenta mai sui social, ma stavolta, mentre mangia il suo riso con pollo e zucchine, si lascia andare a diversi insulti firmati col suo nome e cognome.

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38 anni, dopo tre lavori dove è stata sistematicamente sfruttata e infine licenziata, ha deciso di mettersi in proprio, aprire la partita iva. Sta andando male, ha la percezione che stia lavorando tantissimo solo per sopravvivere, pagare le tasse e il commercialista. Sente che se mollasse un attimo potrebbe seriamente essere a rischio di non poter mangiare il prossimo mese. Nel frattempo prepara una tabella su Excel con le task per la settimana, l’agenda, le attività da fare. Per caso scopre sul web il termine giapponese Ikigai. Apre una bottiglia di vino bianco, al secondo bicchiere è indecisa se andare avanti e non mollare, oppure suicidarsi. Beve un terzo bicchiere e sceglie un film a caso su Netflix. E’ una romantica storia d’amore.

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Un 54enne dirigente d’azienda tra una riunione e l’altra usa un’app per meditare. Fa mindfulness, dice di essere zen. Dopo 10 minuti di meditazione si sente sereno e ricaricato e torna a fatturare. Consiglia la mindfulness ai suoi sottoposti più fidati. Pensa che tutti dovrebbero meditare. Finalmente, dopo due anni di duro lavoro in palestra, gli avambracci raggiungono lo spessore giusto e va a farsi tatuare un enso, il cerchio zen.

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27 anni, soffre di sindrome dell’intestino irritabile. All’inizio erano frequenti mal di pancia e saltuari attacchi di diarrea. Poi la situazione è progressivamente peggiorata e ora sta male praticamente tutti i giorni. Non può quasi uscire di casa, deve avere sempre un bagno a portata. Lascia il lavoro. Aveva messo da parte dei soldi, ma sa che non possono durare molto. Su internet scopre il mondo delle criptovalute guardando i video di un 21enne a Dubai che sostiene di aver fatto i milioni da casa. “Se vuoi diventare milionario devi iniziare a pensare come un milionario” dice. Piegato sul water, contratto per il dolore, col cellulare in mano decide di iniziare a pensare come un milionario.

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41 anni, divorziata, fa un lavoro che odia, non è brava e non vuole diventarlo, è depressa, ma non vuole spendere i suoi soldi in psicoterapia, perché non ci crede. Si è fatta prescrivere degli ansiolitici dal medico di base. Sente di essere una fallita, poi pensa che invece è colpa della società, poi pensa che dice così solo perché è una fallita. Su Instagram vede a raffica video con questi titoli: “L’uomo che vive in una piccola casa e si nutre al 100% di ciò che coltiva”, “Questa famiglia ha lasciato la vita in città per vivere in una yurta in campagna”, “Cambiare vita a 30 anni, la storia di questa ragazza dimostra che tutto è possibile”, “Da ingegnere infelice a insegnante di yoga Lanzarote: un viaggio può cambiarti la vita”, “Ero obeso, sfruttato e depresso. Poi ho iniziato a viaggiare e ho trovato la felicità. Ora vivo in un minivan”. Prende il doppio della solita dose di ansiolitico e va a dormire alle 21, sperando di dormire 12 ore. Si sveglierà nel mezzo della notte pensando ad alcune questioni irrisolte legate al divorzio.

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36 anni, vorrebbe fare lo scrittore perché è sempre stato bravo e appassionato, ha lavorato brevemente per una casa editrice, ma alla fine non gli hanno pagato tutto il dovuto. L’anno prima si è ritrovato con un grosso debito e gliel’hanno pagato i genitori. Attualmente lavora come social media manager e guadagna pochissimo. Soffre di mal di schiena e tendinite. Si lamenta del lavoro con gli amici e loro gli dicono che non ci sono alternative. Ogni tanto fuma dell’erba, ma una volta su due gli prende male. La sera guarda un video su “come cambiare la tua vita e lavorare meno vivendo con 300 euro al mese”. Il primo consiglio è di mettere un impianto fotovoltaico e fare l’orto. Abita in un condominio in un bilocale di 50 metri quadri, da poco ha litigato con una vicina per lo spazio della bicicletta. Il secondo consiglio è di darsi al minimalismo, “non hai bisogno di tutte quelle cose” dicono nel video. Si guarda intorno: l’appartamento è vuoto, ha solo un tavolino basso, è letteralmente seduto per terra, e nella camera da letto, oltre al letto, ci sono solo un armadio con i vestiti e un comodino. La stanza dove si trova è illuminata dalla luce azzurra del portatile.

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Lavorava in coppia con il suo ragazzo, noto tatuatore della città. Quando si sono mollati lei ha sperato di aprire un suo studio per non perdere i suoi clienti. Tra soldi e burocrazia c’è voluto un anno. Vuoi per il tempo, vuoi per la concorrenza del ragazzo, i clienti non l’hanno seguita. Si sono presentati solo ragazzini che vogliono tatuaggi minuscoli da pochi euro pagati dai genitori. Non ci sta con le spese. Seguendo il consiglio di un influencer di Instagram vende tutto quello che non le serve su Ebay e Vinted. Ci ricava 60 euro. Fa due conti sul foglio di calcolo di LibreOffice e scopre che a lei ne servono almeno 5mila. La sera si lascia andare allo sconforto, pensa seriamente di mollare. Infine, alle tre del mattino, di fronte all’ennesimo reel di Instagram, scopre la svolta: fotografarsi i piedi e vendere le foto su Onlyfans.

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A 35 anni si accorge che la sua vita non ha preso nessuna direzione. Non lo dice a nessuno, non saprebbe a chi dirlo. In realtà ci prova un giorno con una collega con cui fa le pulizie in un agriturismo, ma ha la sensazione che quella non capisca. Quando era più giovane voleva entrare nei carabinieri perché subiva il fascino della divisa. Avrebbe avuto un lavoro sicuro, uno stipendio, una pensione. Tutti l’avrebbero rispettata. Ha fatto un figlio che ha come sfondo del cellulare, ma non ha mai avuto un lavoro in regola. Per l’Inps non esiste. Il suo ISEE è regolarmente a zero da anni. Il padre le aveva impedito di entrare nell’Arma perché lo considerava un lavoro da maschi. Ironicamente ora fa un lavoro che il padre considererebbe da donne. Soffre di mal di schiena e per lavorare si imbottisce di ibuprofene. Tra una pulizia e l’altra fa delle passeggiate per tenersi in forma durante le quali ascolta podcast di true crime. La notte a volte sogna di essere un carabiniere che arresta i serial killer.

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Ha compiuto 50 anni da poco, ma non ha ricevuto gli auguri da nessuno. Sua madre, forse l’unica che gli avrebbe fatto gli auguri, è morta l’anno scorso. Ha lavorato per 15 anni in una casa di cura come infermiere, poi è stato licenziato. Dopo un paio di anni di NASPI si è rotta la caldaia, proprio in inverno. Niente riscaldamento, niente acqua calda. Per pagare le bollette fa il dog sitter per una coppia di pensionati benestanti proprietari di tre grossi cani trattati come figli. I pensionati vanno spesso al lago e in montagna, e in quei giorni lui si trasferisce a casa loro. I cani dormono su enormi e comodissimi divani, mangiano carne di prima qualità, entrano ed escono dalla casa super riscaldata. In quella casa, oltre a fare il servo dei cani, lui ha il riscaldamento, l’acqua calda per fare una doccia, una cucina completamente domotica, una grande smart tv, un bellissimo giardino. A volte sogna che i pensionati lo adottino. Vorrebbe diventare il quarto cane.

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Tutto è iniziato mentre si lavava i denti. Erano le otto del mattino, si fissava apatico nello specchio quando un dente si è spezzato. L’ha sputato nel lavandino, poi l’ha preso in mano e l’ha osservato. Non sapendo cosa fare, l’ha buttato nel cestino. Come in una sceneggiatura didascalica, da lì qualcosa è cambiato in lui. I soldi che guadagna gli bastano solo per pagare l’affitto e le bollette, e a volte nemmeno quelle. Ma decide che le cose cambieranno. Una sera, un po’ ubriaco, scarica un ebook dal titolo “I soldi fanno la felicità”. Sottotitolo “Cambia per sempre la tua vita e la tua situazione economica con la Libertà Finanziaria”. Legge i primi capitoli, che lo entusiasmano. La parola chiave è mindset. La mattina dopo, mentre si lava i denti, perde un altro dente. Questa volta un molare. Per un attimo resta immobile, confuso, poi prende a pugni lo specchio che si rompe in mille pezzi. Ha le mani ricoperte di sangue. Si accascia sulle mattonelle del bagno e rimane lì tutta la mattina.

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tutto sarà ricoperto con la terra

Stavo camminando in città e mi è apparsa un’immagine vista mille volte, ma che oggi aveva qualcosa di diverso. Una ruspa aveva scoperchiato il sottosuolo e tutto il suo intreccio di tubi. Vedere questi tubi sottoterra mi ha fatto riflettere su tutte le cose che non saprò mai. Sull’ignoranza che resterà ignoranza per sempre. Cose che rimando da anni e che non approfondirò mai. Cose che resteranno per sempre ignote. Ad esempio le divinità dell’induismo: non ne saprò mai un cazzo. Morirò senza saperne niente. Molte volte ho pensato: mah, approfondirò, prima o poi. Ma non succederà mai. È pieno di cose così, come è pieno di tubi sotto il suolo dove cammino. Cosa sono? Uno è del gas, forse. L’altro sarà l’elettricità? E cos’è l’elettricità, esattamente? Saprei spiegarlo a un bambino, o a un vecchio morente che me lo chiederà come ultimo desiderio mentre mi stringe la mano? E se nottetempo avessero aggiunto tubi dall’utilità sospetta, all’insaputa di tutti? Poco lontano da questi tubi ho visto morire una persona. Era sdraiata a terra, supina, la camicia sollevata, la pancia in vista. A fianco c’era parcheggiata un’ambulanza. Una paramedica gli praticava il massaggio cardiaco da un bel po’. Poi sono passati al defibrillatore. Ma c’era aria di resa. Sotto l’uomo sdraiato sulla fredda pietra, c’erano strati di terra e grovigli di tubi e cavi. Morirò prima di sapere bene la corretta pronuncia dell’inglese. Non leggerò mai le poesie nella lingua in cui sono state scritte: ungherese, ad esempio. O giapponese. E poi dove vanno questi tubi? E da dove vengono? Ne vedo solo un pezzetto, quello svelato dagli operai. Ma il resto mi è ignoto. Come le cose da sapere: quelle poche che so, sono incomplete. Fatico a collegarle. Non ho mai studiato qualcosa in modo sistematico e morirò prima di poterlo fare. Non sono mai certo di nulla. E nella maggior parte dei casi questo è bene. Ma a volte sarebbe bello essere certo di qualcosa, anche fosse una cosa completamente inutile. Non so nemmeno se quella persona sia davvero morta. A un certo punto è stata caricata sull’ambulanza che poi è andata via. Forse l’avevano salvata? Non hanno messo la sirena. Vorrà dire che era morta o che adesso stava bene? Da fuori non si capiva, ho visto l’ambulanza passare e sono rimasto nell’incertezza. Nemmeno questo so, se una persona è viva o morta. Se io sono vivo o se sono morto. Gli operai hanno finito di mangiare il panino, sono tornati all’escavatore per continuare lavori che io ignoro completamente, ho sempre ignorato e ignorerò per sempre, tutto sarà ricoperto con la terra e qualcuno ricostruirà quelle perfette geometrie fatte di pietre, nascondendo i tubi e i cavi all’occhio dei passanti. Così come quando sarò morto qualcuno coprirà il mio corpo con la terra e metterà una pietra sopra quel groviglio di ossa, pelle e vene che un tempo ero io.

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One Piece Motivazionale – Diventare il Re dei Pirati

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la scomparsa eleganza di yamaoka tesshu

da sei mesi il maestro yamaoka tesshu non poteva masticare dalla parte destra della bocca. se lo faceva, il dolore lo fulminava come se fosse trafitto da una spada molto affilata. le fitte si estendevano a tutto il volto, chiudeva gli occhi e una mano andava inutilmente alla guancia. da sei mesi si era abituato a masticare così perché non poteva andare dal dentista. non sapeva quale fosse il problema, ma qualunque cosa fosse sapeva che avrebbe dovuto pagare, questo era sicuro. eppure a preoccuparlo non era tanto il denaro, che ormai quasi non ricordava più, ma l’eleganza. sì, cari lettori, avete capito bene. quando fantasticava sui suoi appuntamenti dal dentista yamaoka tesshu si chiedeva come avrebbe giudicato il suo piumino con le toppe, le felpe bucate, i pantaloni sdruciti. avrebbe voluto essere elegante anche in questa situazione, tanto più con il dentista. vestirsi male per lui era diventata la norma, come un saio da indossare per chi ha fatto voto di povertà. ma quando aveva fatto questo voto non se lo ricordava. forse era successo quando dormiva al freddo, indossando due felpe sotto due piumini. a volte era impossibile uscire dal letto e andare in bagno, lavarsi con l’acqua ghiacciata, e infatti yamaoka tesshu ormai non si lavava più. guardava i suoi denti gialli allo specchio e faceva colazione ascoltando i problemi del mondo alla radio. si riscaldava le mani sopra il tostapane, che però teneva acceso poco perché costava, mentre sentiva storie di tsunami, guerre, omicidi, e si chiedeva quando avrebbero finalmente parlato dei suoi denti. se tutto questo era cominciato mentre dormiva, pensava yamaoka tesshu, forse tornando a dormire sarebbe tornato indietro. ma non funzionava. ogni mattina si svegliava solo per arrendersi alla triste e ineluttabile realtà. beveva il suo tè fumante nella cucina gelida, le dita da rosse riprendevano il normale colorito a contatto con la tazza calda. poi si spostava al computer, dove guardava gli annunci di lavoro e dove, come una donna incinta, aveva i primi conati del mattino. poi ascoltava ancora la radio, dove parlavano di libri e di cultura, queste voci piacevoli e rilassate che yamaoka tesshu si immaginava prive di corpo, entità immateriali fluttuanti su soffici poltrone in pelle con una tazza di earl grey twinings davanti, libri freschi di stampa, a confrontarsi sulla necessità della narrazione dall’età moderna alla contemporaneità, o cose simili. poi di solito aveva qualche contatto con la realtà esterna, o perché usciva di casa, evento ormai sempre più raro perché pressoché inutile, oppure tramite messaggi con amici e amiche, dove ci teneva a sottolineare in tutti i modi quanto andasse tutto bene e quanto stesse benissimo. e mentre masticava un cracker, ecco che un granello di sale finiva nell’arcata dentale inferiore, a destra, scatenando ondate di dolore in tutta la testa. mai distrarsi, pensava yamaoka tesshu, mentre alla radio parlavano dello spazio occupato dalla sperimentazione all’interno e in contrapposizione al panorama della letteratura, di egemonie culturali e della tensione tra linguaggio e realtà.

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la vasca

nonostante tutto bisogna pur lavarsi. oltre a un non secondario fattore di autostima, negli incontri ravvicinati la puzza ha significative conseguenze sociali. si rischia di puzzare di povero, o di puzzare e basta. niente riscaldamento e niente acqua calda rendono le cose difficili, ma l’uomo disperato s’ingegna e sperimenta: docce fredde, com’è di moda, acrobatici e inefficienti lavaggi a pezzi, oppure semplici cambi di vestiti, così, a secco. l’ultima doccia calda risale a più di un mese fa, anche se mi sembra molto di più, in un albergo non pagato da me, dov’ero arrivato già piuttosto sporco. ma non è solo una questione d’igiene, è anche per il piacere che l’acqua calda può dare, rilassare i muscoli, stendere i nervi, regalare un sorriso, tutta roba gratuita, in teoria. mio padre mi ha raccontato uno dei suoi ricordi indelebili d’infanzia, di quando a casa sua era andato un uomo a fare dei lavori nelle tubature, al freddo, mio padre aveva forse quattro o cinque anni, e sua madre, ovvero mia nonna (che torna sempre), a lavoro finito portò un catino d’acqua calda all’uomo perché potesse lavarsi le mani e le braccia. secondo il ricordo di mio padre, nel momento in cui l’uomo immerse le braccia, sul suo volto apparve un’espressione incontrollabile di piacere inatteso, come di qualcuno che non aveva mai provato l’esperienza dell’acqua calda, o che forse non la provava da molti anni. è quello che cerco, quella sensazione. così riempio tre pentole e le metto sui fornelli, in contemporanea metto in funzione due bollitori elettrici che riempirò in tutto una dozzina di volte ciascuno. ovviamente questo bagno mi costa, ma ne ho bisogno. mentre metto l’acqua nella vasca mi rendo conto, ma forse era facile immaginarselo, che non riuscirò mai a riempirla completamente. l’obiettivo è arrivare a un livello tale che almeno mi consenta di immergermi. stanco di riempire pentole e bollitori, mi fermo, calcolando a occhio di aver raggiunto il livello giusto. mi sembrano meno di venti centimetri d’acqua, ma decido che è abbastanza, anche perché il bagno si è riempito di vapore, non si vede più nulla e ogni cosa è bagnata. mi tolgo i vestiti, era da un po’ che non lo facevo, sulla pelle ho tanti puntini rossi. mi immergo, l’acqua è calda ma, com’era prevedibile, non è abbastanza. così mi sdraio nella vasca, completamente appiattito sul fondo, e mi lavo così, come se fossi in piedi nella doccia, solo orizzontale. quando inspiro, l’acqua mi lascia scoperto, ma quando espiro la pancia si sgonfia e l’acqua torna a coprirmi, dunque approfitto per lavarmi come si deve nelle espirazioni. è scomodissimo e per niente rilassante, eppure mi godo il calore dell’acqua, che in poco più di cinque minuti diventa tiepida, e allora metto fine all’esperienza. quando mi alzo il mio corpo fuma, ho molta pelle morta da togliere. rimango per un po’ al freddo, nudo, per godermi qualche minuto senza vestiti, poi mi rivesto con biancheria che profuma di lavatrice. è durata poco, ma mi sento bene, mi sento meglio, più ottimista. come cantava alex britti in quel suo bellissimo inno anarchico del 2000: voglio restare tutto il giorno in una vasca / con le mie cose più tranquille nella testa / un piede fuori come fosse una bandiera (…) ma spero solo questa mia fantasia / non sia soltanto un altro attacco di utopia. alla fine mi faccio anche lo shampoo: infilo la faccia tra il rubinetto e il lavandino e lascio andare l’acqua ghiacciata. con la bocca sfioro il buco dello scarico. la testa pulsa per il freddo, l’acqua sembra bruciarmi. è lo shampoo meno piacevole che si possa immaginare, dunque cerco di renderlo il più breve possibile. anche se massaggiarmi la testa con la schiuma è piacevole, sebbene dopo un po’ non mi senta le dita. la schiuma è una cosa buona, è come la mamma, che ti accarezza la testa quando sei triste e stanco. alla fine scccciacquooo e, dopo essermi asciugato i capelli con un phon a forma di papera, il mio ottimismo è aumentato ancora di più.

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earl grey

ho deciso che per il resto della mia vita comprerò solo tè di qualità. non importa quale sarà il mio livello di povertà, e se riuscirò o no a risalire questo imbuto – da oggi fino a quando schiatto berrò solo tè buonissimi. bevo il tè due o tre volte al giorno, tutti i giorni. mi è capitato di bere delle qualità scarse, comprate nei supermercati economici, e le ingoiavo tristemente pensando che quella era la vita. non amara, non dolce, semplicemente non buona. per questo inverno sto usando dei vecchi pantaloni in velluto, buoni perché tengono caldo, cattivi perché hanno sul davanti delle cuciture che si stanno disfacendo e nel didietro, proprio lì, uno squarcio imbarazzante, oltre a essere lisi sulle ginocchia. dunque vanno bene per uscire senza essere visti – meno per situazioni sociali. ma c’è quella zona grigia che è il supermercato, dove di fatto ci sono interazioni sociali, se non con le altre persone sicuramente con la commessa o il commesso, visto che dove vado non ci sono le casse automatiche. al supermercato ho deciso che posso andare con i pantaloni caldi ma distrutti, tanto conosco poche persone e quelle poche forse si aspettano da me che sia vestito così, e che me ne freghi. in questi casi non mi curo tanto nemmeno dei capelli, o di malattie della pelle, di eventuali buchi nella giacca, né di altri banali indizi di sopravvenuta indigenza. mi soffermo davanti allo scaffale del tè. twinings sempre irraggiungibile. forse quando lo mettono in offerta, ma non capita mai. ho fantasticato spesso di rubare delle scatole di tè twinings. quelle e l’avocado sono tra le cose che ruberei al supermercato, anche perché sono tra i prodotti che non metteranno mai nei pacchi alimentari della caritas. twinings ha un copywriter molto capace, come si intuisce da questo formidabile incipit sul loro sito: “In un tempo in cui si beveva solo caffè, Thomas Twining sfidò le convenzioni e iniziò a commerciare tè con le Indie Orientali”. sembra già la trama di un film di hollywood, tutti che bevono caffè, arriva questo pazzo che spiega a qualcuno che il futuro è nel tè, nessuno gli crede, gli danno del matto, ma alla fine ha ragione lui e fa i soldi. poi a fianco a twinings c’è sir winston tea, ottimo tè da supermercato, ma anche questo sempre troppo per le mie tasche, quindi tocca prendere quelli economici, o attendere che qualche amico o amica ti regali quelli buoni. ho già ricevuto del tè in regalo quest’anno, un tè matcha molto buono, se ci si abitua. penso: chissà cosa direbbe mia nonna se mi vedesse andare in giro con questi pantaloni. lei in casa aveva sempre il tè twinings ed era molto netta per quanto riguarda la differenza tra i vestiti da casa e i vestiti per uscire. anche in casa in realtà si vestiva bene, perché poteva sempre arrivare un ospite. ma quando si usciva bisognava essere perfetti, e anche diventata molto vecchia si controllava allo specchio prima di uscire di casa e si spruzzava un po’ di profumo. ed eccomi qua, nonna, con la mia puzza di caprone e legna umida, i pantaloni bucati, due avocado nelle tasche, una scatola di earl grey della twinings nella giacca, pronto per la mia scalata al successo.

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Non sé, non opinione

Daiju, un giovane allievo del maestro Tekisui nel monastero di Bankei, voleva farsi un’opinione sul conflitto in Medio Oriente. “Non sei pronto” gli disse il maestro. Daiju era ostinato e decise di leggere cento libri in cento giorni, uno al giorno. Storia, geopolitica, reportage giornalistici, perfino fumetti: Daiju lesse avidamente e sottolineò molti passaggi, rubando non poche ore al sonno (durante il giorno meditava e lavorava nel giardino). Dopo cento giorni si ripresentò dal maestro Tekisui che, senza nemmeno ascoltarlo, lo respinse subito dicendo: “Non sei pronto, torna quando lo sarai”. Il giovane Daiju capì di essere ancora vittima di percezioni erronee; comprò altri libri e andò avanti a leggere e studiare, questa volta per un anno. Ma ancora una volta, un anno dopo, il maestro lo respinse: “Non sei pronto”. Daiju studiò un altro anno, ogni giorno, rubando tempo al sonno e pensando al conflitto in Medio Oriente anche durante la meditazione. Nel suo palazzo mentale si era formata un’opinione ormai da tempo, ma voleva che fosse solida, in modo che il maestro non potesse distruggerla immediatamente. Una mattina, finiti tutti i libri e i canali Telegram, Daiju si presentò dal maestro e, senza lasciargli il tempo di rispondere, disse “Ora sono pronto. Secondo me…”. “Te?” rispose il maestro. “Non c’è nessun te”. Daiju in quel momento raggiunse l’Illuminazione. Più tardi fu visto davanti a un grande falò di libri.

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black mirror è terribile

certamente bello l’episodio “joan è terribile” di black mirror, non ci sono dubbi, ma per la prima volta l’amarezza che lascia la serie distopica non è data tanto dalla pur ottima sceneggiatura di charlie brooker, ma dal fatto stesso che la puntata esista. mi spiego: l’episodio contiene, o sarebbe meglio dire è, una grande critica a netflix. non è solo questo, ma diciamo soprattutto. netflix è rappresentato come il male, un grande pericolo – e senza nessuna ironia. e tutto questo viene trasmesso… su netflix. la famosa critica dall’interno non funziona, l’amarezza che resta dopo la visione è che un’opera così critica trovi senza problemi ospitalità nel ventre del mostro che critica. è la regola d’oro del capitalismo: parla male di me, e io ti pubblico, l’importante è farci i soldi. così come la protagonista ricorre a stratagemmi per boicottare la mega piattaforma senza ottenere alcun risultato, charlie brooker ci mostra quanto pericolosa possa essere la mega piattaforma ottenendo il risultato di essere tra le serie più viste nella mega piattaforma. e probabilmente avrà ottenuto un sacco di complimenti dai capi. questa è la vera amarezza. è una macchina da cui niente e nessuno può sfuggire, puoi solo ricevere soldi e pacche sulle spalle – e per questo black mirror è terribile.

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Come andare d’accordo con il proprio capo. 10 strategie vincenti

Uomo d’affari sorridente che guarda di lato mentre si siede a lavorare su un computer portatile a un tavolo in un ufficio luminoso e arioso in una vista ad angolo basso

molti di noi hanno dei capi. ed è importante sapersi comportare nella maniera adeguata per ottenere il massimo dal vostro rapporto con il capo. ecco dieci consigli.

1. riconosci il tuo ruolo

sei un sottoposto, quello che perderà il lavoro alla prima folata di vento. il tuo ruolo è quello di essere l’ultima ruota del carro quindi non hai niente da perdere, ricordalo al tuo capo ogni volta che passa facendo un bel sorriso e con l’indice il gesto di tagliare il collo. il sorriso gli ricorderà che tu sai prendere bene le cattive notizie

2. crea il clima giusto

l’ideale negli ambienti di lavoro è giocare d’anticipo: crea un costante clima di terrore. appendi teschi con la cravatta sopra al cesso. manate di sangue e feci sul muro della sala riunioni. dimentica apposta bottiglie piene di benzina nella sala del caffè. in questo modo il capo capirà a quale tipo di clima potrebbe andare incontro in caso di straordinari non pagati.

3. Il capo è un essere umano come tutti gli altri

anche lui ha una famiglia, degli affetti. quindi procurati le foto dei suoi cari, i figli in particolare (con facebook è facile), stampale e appendile in ufficio. tramite un telefono anonimo ogni tanto manda le foto al capo: queste piccole e affettuose sorprese sono particolarmente apprezzate e porteranno il vostro rapporto su un altro piano.

4. Offriti di fare del lavoro extra, quando è necessario

per rendere felice il tuo capo, è necessario dimostrare che sei una persona su cui può contare quando c’è del lavoro in più da fare. usa l’ufficio per accogliere migranti e latitanti, ruba tutto quello che puoi, organizza bische e rave illegali nell’ufficio. Il capo saprà apprezzare. anche perché la responsabilità sarà tutta sua, dopotutto è il capo.

5. Conosci meglio il tuo capo

effettua delle indagini da professionista per scoprire le abitudini di vita della persona, dove mangia in pausa pranzo, qual è la sua macchina, dove vivono i suoi amici e parenti, devi sapere tutto. ha una canzone preferita? nasconditi in bagno e attendi che entri il capo e falla partire, stile film horror.

6. Think different. Cerca di essere innovativo

per andare oltre i tuoi soliti compiti e fare contento il tuo capo, devi essere in grado di pensare fuori dagli schemi, essere innovativo. apri un laboratorio per cucinare amfetamine in una parte poco usata dell’ufficio. dimostrerai intraprendenza e un certo intuito per il mercato.

7. risolvi i problemi, non lamentartene

un atteggiamento eccessivamente lamentoso è sempre poco costruttivo. un dipendente che si lamenta non è ben visto dal capo, e ha tutte le sue ragioni, diciamolo. non lamentarti, risolvi direttamente i problemi se si presentano. acquista legalmente un’arma, una balestra, un falco da caccia, oppure un’ascia affilata, comunque qualcosa da poter usare al momento giusto.

8. L’importanza dei paletti

nel rapporto col capo bisogna mettere dei paletti. la disponibilità sul lavoro è molto importante, ma è bene stabilire delle regole. affila dei paletti di legno, come quelli di Vlad l’impalatore, e usali per circondare la tua scrivania.

9. Il capo apprezza gli audaci

dopo una settimana passata a non lavorare, vai da lui e chiedi un aumento di stipendio. La richiesta sarà talmente spudorata e “out of the box” che il capo non potrà che concederla, soprattutto perché in una mano stringerai il pupazzo preferito di sua figlia. Ricorda, memento audere semper, come dice il tatuaggio che il capo si è fatto fare sul bicipite.

10. Manifesta la tua simpatia e rendi il posto di lavoro un luogo allegro

Non c’è solo il lavoro, e questo il capo lo sa bene, dato che passa 15gg su uno yacht affittato a porto cervo e le vacanze di natale a St. Moritz. Mostra il tuo spirito intraprendente organizzando Halloween in ufficio a tema Rivoluzione Francese, con ghigliottine fatte in cartapesta. Il capo apprezzerà.

Extra:

inoltre ricorda che:

  • la tua mission è quotidianamente non morire di fame;
  • la tua vision è ricordarti che lavori per un tempo superiore a quello necessario a ricostituire i tuoi mezzi di sussistenza, mentre un’altra classe si appropria del prodotto ottenuto da questo pluslavoro;
  • Se devi dire qualcosa di importante al tuo capo, organizza un incontro. Se tenti di comunicargli un’informazione importante nel corridoio o quando è visibilmente occupato, non sarà nelle condizioni di ascoltarti;
  • un’alternativa è scrivere quello che devi dire a caratteri cubitali con una bomboletta spray sulla facciata dell’ufficio o sulla sua macchina;
  • visto che ci sei, buca le ruote della macchina, il messaggio sarà più incisivo.
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La tecnica della respirazione della concentrazione assoluta

  • quando sei in difficoltà, torna alle basi
  • le basi: la respirazione.
  • “il respiro è nei polmoni. se non riesco a farlo bene significa che non sono all’altezza (demon slayer, ep. 24)
  • “gli sforzi si accumulano di giorno dopo giorno, basta andare avanti anche di poco” (demon slayer, ep. 24)

la respirazione del fuoco non è la respirazione della fiamma

Tanjiro di giorno esplora vari tipi di respirazione, corre tantissimo, insomma fa principalmente cardio, parkour, e soprattutto allena la tecnica della respirazione della concentrazione assoluta, ovvero “una tecnica che accelera la circolazione del sangue e velocizza il battito cardiaco, consentendo a chi la utilizza di diventare forte come un demone mantenendo la forma umana”

per certi versi può ricordare quella di wim hof o altre tecniche di respirazione di origini induiste, principalmente la respirazione Tummo, se non erro chiamata anche fuoco interiore (in questo articolo vengono analizzate alcune respirazioni di demon slayer)

dopo tutto questo sudare, a parte una breve pausa per un onigiri, Tanjiro la notte si mette sul tetto a meditare, con una respirazione calma, lenta, profonda, ed proprio qua che sembra ricaricarsi. è qua che avviene qualcosa. non ci sarebbe crescita senza il riposo.

in demon slayer le fasi di riposo, cura e guarigione sono fondamentali. l’intero manga/anime è una specie di manuale di respirazione. in tutti i seinen c’è sempre almeno una scena in cui il protagonista, dopo aver lottato, è fasciato di solito all’altezza del petto, e cammina con una stampella di legno. fratture e lesioni gravi sembrano passare in due o tre notti e mangiando molto. ricordo in berserk, per dirne una, che anche dopo ossa frantumate, si andava avanti a combattere dopo una bella dormita.

in demon slayer non è proprio così, le parti dedicate alla cura e alla guarigione sono lunghe quanto gli scontri, se non di più. notti di riposi, di medicine, di attenzione al respiro. di recupero e di ascolto, per capire dove si sbaglia, soprattutto nel respiro.

“Imparerai a fare lunghi respiri capaci di inviare ossigeno negli angoli più remoti del tuo corpo. Aumenterà la capacità di recupero naturale del tuo corpo, darà stabilità e reattività al tuo spirito. la parte superiore del corpo sarà leggera e quella inferiore sarà inamovibile. Bene, inspira ed espira”

Sakonji Urokodaki – Demon Slayer, non ricordo quale episodio, comunque quando lo allena in montagna.

quel “quando sei in difficoltà, torna alle basi” unito al “le basi sono il respiro” mi è stato molto utile in certi momenti, anche ora.

perché principalmente quello che a volte faccio è:

  • smettere di respirare
  • dimenticarmi che sto respirando
  • non prestare attenzione al respiro
  • non prestare attenzione alla qualità del respiro

invece, come Tanjiro, vorrei puntare alla la tecnica della respirazione della concentrazione assoluta, e lui per raggiungerla si allena letteralmente anche mentre dorme (lo svegliano a bastonate se vedono che sta respirando male o sta russando). non posso arrivare al livello di abnegazione di Tanjiro, ma posso vederla come una stella polare, una direzione.

intanto, dunque, tornare alle basi. ricordarmi che respiro.

Infine:

Nel trasportare il respiro, l’inalazione deve essere completa. Quando è completa, ha una grande capienza. Quando ha una grande capienza, può espandersi. Quando si espande, può penetrare verso il basso. Quando penetra verso il basso, diventa calma e stabile. Quando è calma e stabile, sarà forte e regolare. Quando è forte e regolare, germoglierà. Quando germoglia, crescerà. Quando cresce, si ritirerà verso l’alto. Quando si ritira verso l’alto, raggiungerà la sommità del capo. Il potere segreto della Provvidenza si muove sopra. Il potere segreto della Terra si muove sotto. Colui che segue questi precetti vivrà. Colui che li avversa perirà.

Iscrizione su pietra della dinastia Zhou, 500 a.C.

 

 

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Dilemma etico n.7

esperimento mentale che propone un dilemma etico. mettiamo che stiate camminando in un parchetto e vi troviate di fronte la seguente scena:

  • un pedofilo vestito da coniglio gigante morto nell’atto di violentare un bambino

notare che:

  • il bambino è ancora vivo;
  • il pedofilo è morto;
  • i due sono ancora avvinghiati;
  • è ipotizzabile che il decesso sia avvenuto durante la violenza sessuale;
  • il pedofilo era molto probabilmente cardiopatico;
  • essendo in rigor mortis, il pene del pedofilo è ancora eretto dentro il bambino;
  • ciò significa che il bambino si trova in questa situazione da almeno tre ore;

ora, sapendo queste cose il dilemma che si pone è il seguente: la cosa più giusta da fare è o non è uccidere il bambino?

dopo aver lungamente ragionato la mia risposta è: sì, bisogna uccidere il bambino.

perché? perché sarà impossibile per lui riprendersi da un trauma del genere. un trauma che consiste in:

  • essere rapito;
  • essere maltrattato dal pedofilo, da un pedofilo vestito da coniglietto;
  • essere violentato dal pedofilo, ricordiamo vestito da coniglietto;
  • sentire il pedofilo morire rantolando;
  • restare da solo con il pene del pedofilo inserito nel proprio ano per diverse ore!
  • trovarsi di fronte, diverse ore dopo, uno sconosciuto che invece di salvarlo immediatamente si pone dilemmi etici;

a mio parere la situazione è totalmente senza via d’uscita e per minimizzare la violenza ormai non si può che far fuori anche il bambino.

vi sento: qualcuno starà dicendo sì, ma la famiglia, i genitori?

i genitori non sapranno mai. bisogna mettere al primo posto il dolore del bambino, non quello dei genitori. dunque il dilemma è risolvibile esclusivamente uccidendo il bambino e sotterrando entrambi i corpi.

(questo, sempre in un’ottica di minimizzazione del dolore, per fare in modo che i due corpi non vengano trovati, soprattutto in quella posizione, dai genitori, che a quel punto potrebbero sì soffrirne o comunque trovare la situazione un po’ bizzarra)

inoltre va considerato che, immaginando che dopo questo trauma il bambino cresca, ci sono altissime probabilità che cerchi la morte da solo, ovvero: il suicidio. con tutto il carico emotivo negativo che ben conosciamo. questo non accadrebbe se venisse ucciso subito e il suo corpo sotterrato.

c’è una sola eccezione per la quale la risposta al dilemma non è quella di uccidere il bambino. ed è la seguente condizione:

  • il bambino era cieco e sordo

ovvero: non abbiamo modo di sapere in che modo ha percepito la violenza del pedofilo vestito da coniglietto, molto probabilmente ha sentito il dolore fisico, ma potrebbe averlo paragonato a quello di una caduta, di un’aggressione di un animale (es. un orso) o altri accidenti similari. in questo caso forse non ha senso uccidere il bambino.

si può sfilare dal pene eretto del pedofilo e affidarlo a chi saprà prendersene cura. però…

allo stesso modo non possiamo che pensare: e se, sebbene cieco e sordo, il bambino ha vissuto il trauma esattamente come un bambino vedente e non sordo? a questo andrebbe aggiungersi la sua impossibilità, negli anni successivi, di raccontare il trauma, se non superarlo, almeno condividerlo in un percorso di psicoterapia.

e dunque anche in questo caso ci troveremmo senza una via d’uscita: il bambino dev’essere ucciso, per il suo bene, ma dev’essere ucciso.

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L’invidia del cancro

stavo parlando con una persona che potrebbe avere il cancro e mi sono accorto che stavo provando una forte invidia. In realtà mi è capitato già altre volte. chi ha il cancro può permettersi di tutto, io ho una serie di piccole malattie sfigate – compresa una rara e degenerativa – che però, anche sommate, non fanno comunque un cancro.

diciamo che se mettessimo sul piatto di una bilancia tutte le mie piccole magagne e sull’altro anche un piccolo cancretto, non ci sarebbero dubbi: vincerebbe il cancro.

anche solo la parola, cancro, suona molto più forte dei nomi delle mie malattie, che spesso hanno suoni un po’ comici che ricordano i nomi dei gelati. del tutto imparagonabili con CANCRO. ma a parte questo, è praticamente impossibile di fronte a una persona col cancro attirare l’attenzione su di me, magari dopo che lui o lei hanno parlato del cancro dicendo IO HO UNA RAGADE ANALE!

sono super invidioso quando mangio fuori e alla tavolata c’è qualcuno che ne parla con disinvoltura e subito penso che io saprei farlo meglio. che sarei più bravo a gestire il cancro socialmente, come se fosse un vestito da indossare. anche quando fanno le battute, l’autoironia, faccio la risata finta Eheheheh ma penso: io avrei fatto una battuta migliore. ma non posso farla, perché non ho davvero il cancro.

vorrei avere il cancro anche solo per le battute, per poterne parlare a tutti, per poterne scrivere, ecco, soprattutto per poterne scrivere. vedo come uno spreco chi ha il cancro e non ne scrive, oppure chi ce l’ha, ne scrive ma lo fa male, fa libri che fanno schifo. e allora datemi il vostro cancro, scriverò io il libro. sarà spassoso ma farà anche scendere qualche lacrima.

tornando alla pizzeria ci sarebbe sicuramente la scena del tizio che, dopo aver fatto ridere ma anche riflettere, si alza per andare in bagno – probabilmente a esultare davanti allo specchio per le battute riuscite, o almeno io farei così – e gli altri a dire: guarda come la prende bene, è un mito, guarda com’è forte, è una roccia, un lottatore, è un vero uomo! tutti a parlarne bene.

probabilmente di fronte a una scena così perderei il controllo e andrei sul paranoico e direi: ma lo conoscete bene? che ne sappiamo che ha davvero il cancro? magari sta inventando tutto per attirare l’attenzione. qualcuno ha visto le cartelle cliniche per caso? a me sembra in forma, sano come un pesce! io non mi fido, magari l’ha fatto solo per non pagare.

e invece, tornando dal bagno, scopriamo che il tizio ha pagato per tutti, l’angelo del cancro ci ha offerto la pizza, poi fuori dicono che comunque pare stia guarendo, e allora perché ne abbiamo parlato tanto scusate? allora parliamo anche del mio raffreddore già che ci siamo. se sta guarendo forse si può ridimensionare, parliamo della mia malattia rara agli occhi, che è un po’ come un personaggio non giocante di un videogioco, mentre il cancro è il boss finale.

per dire, quest’anno faccio 25 anni di depressione e non ho diritto manco a uno sconto al cinema. uno che era all’asilo con me ha il cancro da quattro anni. mio padre, quando me l’ha detto, ha usato lo stesso tono che usa quando mi dice di qualche mio coetaneo che si è sposato o è stato assunto alla regione. Insomma, e tu disgraziato alla tua età ancora niente? un diabete, una leucemia fulminante? rompi le palle con la bronchite e questa cosa agli occhi, quando c’è gente che ha già un vero cancro.

ho tutta una lista di battute autoironiche sul cancro già pronte, nella speranza  prima o poi di poterle usare. ovviamente non le condivido adesso, perché se no poi “quelli” me le rubano, anche se alcune sono davvero spassose, talmente divertenti che le ho lette a un amico con un cancro al cervello e ha riso per sei ore, senza fermarsi. l’hanno dovuto addormentare i medici e io sono stato allontanato dall’ospedale.

ci sono poi i casi in cui il cancro viene al tuo o alla tua partner. anche lì provo fastidio, perché non è che puoi dire “abbiamo il cancro”, è una cosa individuale, ce l’ha lei/lui, non tu. e poi, comunque, non lo vorrei condividere, vorrei che fosse mio, è un po’ come il car sharing, idealmente è un’idea buona e ne parlo sempre bene, ma so come sono fatto, alla fine non funzionerebbe. vorrei la mia macchina così come vorrei il mio cancro.

a volte in treno ho fatto interviste immaginarie dove rispondevo a domande di solito delle radio (non immagino di parlare del cancro in tv) sul mio cancro.

qualche battuta iniziale, di quelle che non metto se no le copiano, poi serissimo, filosofico con la barba di tre giorni, ogni tanto la mano a sistemare i capelli, il biglietto al controllore, veramente non l’ho fatto, mi alzo, vado nel vagone successivo e così via, tanto scendo tra una fermata, e poi HO IL CANCRO PERDIO NON DEVO PAGARE IL BIGLIETTO.

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il suo cervello era

nell’agosto del 2019 Arthur Vismion è andato a vivere in una capanna in una foresta della Yakutia, Siberia. oltre a una stufa, ovviamente fondamentale per le temperatura della zona che arrivano anche ai -70 gradi sotto zero, arthur ha installato internet satellitare e un generatore.

chiuso dentro la capanna, con solo freddo, neve e ghiaccio intorno a sè, ha passato un anno intero a giocare circa 12 ore al giorno su chess.com. a quanto si è scoperto da alcuni appunti, la sua routine quotidiana consisteva in 4 ore di partite la mattina, studio teorico di partite storiche, che memorizzava, durante il pranzo, e poi 8 o anche 10 ore di seguito fino alla notte. non giocava tutti i giorni, tendenzialmente 6 o 5 giorni su sette. sempre dagli appunti si è appreso che se non giocava per 2 giorni, il giorno dopo arrivava a giocare anche 14 ore al giorno. nei momenti in cui non giocava, oltre a prendersi cura della casa e garantirsi il caldo, ascoltava con un mangianastri la cassetta “All of Me” dell’artista Masayoshi Takanaka. in 6 mesi ha raggiunto il punteggio di 2900 su chess.com.

si sa, sempre da alcuni appunti e dalla cronologia del sito, che giocava spesso contro AI, che riteneva avversari più interessanti degli umani. su questo ci sono pareri discordanti: se è vero che preferiva giocare con le AI, è anche vero che memorizzava migliaia di partite di umani contro umani, quelle dei grandi campioni ma non solo. dopo il sesto mese c’è stato un incremento esponenziale: da 2800, è arrivato in meno di 30 giorni al punteggio di 3300. cinquecento punti in meno di un mese, a quei livelli, erano considerati fino a quel punto impensabili. poi è successo qualcosa di ancora più impensabile.

in una giornata in cui c’erano -70 gradi, Arthur ha giocato per 16 ore di seguito portando il suo rank a 4000. lo stesso Magnus Carlsen in un’intervista dichiarò che non si poteva trattare di un essere umano ma di una AI. Carlsen era andato molto vicino alla verità. Arthur era un essere umano, ma per metà. il suo cervello era

ecc. ecc.

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nel fondo dell’abisso hai tu passeggiato

Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell’abisso hai tu passeggiato? Ti sono state mostrate le porte della morte? Hai tu visto le porte dell’ombra di morte?

Giobbe 38,16-17

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Kill the Enthusiasm 2023

per anni mi è stato chiesto di rifare le magliette e gli adesivi KTE. eccole qua, rifatte. nere e bordeaux. https://www.harrr.org/kte/ qui le magliette, S, M, L, XL comprese spese di spedizione e adesivi

più avanti costeranno qualche euro in più