(come al solito la cartella “bozze” abbonda di perle assolute che per motivi misteriosi non pubblico – o magari sì, poi vediamo – ma faccio un’eccezione per questo raccontino a tema calcistico scritto nel 2006 per excite – altri tempi – autobiografico e simpaticissimo, l’ho recuperato miracolosamente dall’archivio di gmail e non lo leggevo appunto dal 2006 e tutto sommato fa ancora la sua simpatica figura. sì, c’è un clamoroso errore che al tempo tutti mi hanno fatto notare, ma ha un suo perché e quindi l’ho lasciato. e comunque ora e sempre gianfranco zola presidente.)
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Rigori sbagliati, rivoluzione armata e Roberto Baggio in quartiere popolare degli anni 90
Mi viene chiesto di rievocare un ricordo legato a una partita di calcio. Dicono che è come una terapia. Ho pensato, e un ricordo c’è. Naturalmente si tratta di un’esperienza vissuta in prima persona. Le partite vissute da tifoso le ricordo poco, non so se per colpa mia o perché sono finito nella generazione sbagliata. Voi vecchi decrepiti magari vi ricordate Maradona che fa gol di mano oppure Italia Germania 9 a 7 mentre io riesco a ricordare solo rigori sbagliati (da Baggio a Di Biagio) ed espulsioni ingiuste che quasi mi portarono al suicidio (cfr. Gianfranco Zola, l’unico calciatore degno di nota degli ultimi trecento anni, ingiustamente espulso da un arbitro infame durante Italia-Nigeria, Coppa del Mondo 1994: il mio Undici Settembre). Ma la partita che io ricordo meglio è stata giocata in un quartiere popolare di una piccola città in qualche punto del tempo, diciamo nella seconda metà degli anni 90 (…per cui Baggio aveva già sbagliato quel rigore ed eravamo già tutti entrati in un mondo parallelo. Solo quando si ripeterà la partita e Baggio calcerà la palla che stavolta entrerà in porta invece di partire verso lo spazio, potremmo tornare nel nostro mondo. Ma sarà ancora il nostro mondo? E poi, la palla calciata da Baggio, dopo aver colpito la traversa, dove andò a finire? Colpì qualche pianeta alieno? Ed è vero o no che analizzando la sequenza del rigore fotogramma per fotogramma si vede uno strano essere che sostituisce il pallone di Baggio con un supertele gonfiato a 50 atmosfere? Dov’era Lee Oswald in quel momento? C’entra la CIA? Esco dalla parentesi).
In effetti le cose da approfondire sarebbero molte, ma per ora concentriamoci solo sulla Mia partita. Nel mio quartiere – palazzi grigi, panchine bruciate, ecc. ecc. – c’erano due gruppi diversi, due squadre diverse. Questa divisione rifletteva disuguaglianze economiche ben radicate. Tanto per capirci diciamo che i primi erano i bambini ricchi e gli altri erano quelli poveri. I primi erano tutti figli di gente che stava abbastanza bene, avevano un campo vero con l’erba, palloni fantastici, magliette tutte uguali con tanto di sponsor, reti senza buchi e perfino delle tubature dalle cui estremità usciva acqua. Il secondo gruppo era quello dei poveri disastrati: genitori muratori pescivendoli disoccupati alcolizzati, niente erba, voragini a metà campo, rete immaginaria, magliette tutte diverse comprate alla standa e ovviamente niente docce – anche se c’era una specie di spogliatoio però usato dai tossici per bucarsi.
Io stavo nel mezzo. Non troppo povero ma non abbastanza ricco, genitori non alcolizzati, anzi fortunati dipendenti statali, però con mutui e debiti da far spavento, e sapevo benissimo che sarei stato rifiutato da entrambi i gruppi. Quindi feci quello che avrebbe fatto qualunque dodicenne nella mia situazione: decisi di sfruttare la povertà del secondo gruppo per convincerli a prendermi con loro. Pensavo che dopotutto erano morti di fame e probabilmente sarebbe bastato mostrare un pezzo di pane per convincerli a prendermi nella loro squadra. Oppure, meglio del pane, un pallone. Mio nonno me ne aveva regalato uno nella speranza che il suo nipote biondo preferito diventasse un campione di calcio. Sfortunatamente avevo perso i capelli biondi un po’ di tempo prima in circostanze più o meno misteriose (si trasformarono nell’attuale orribile castano il giorno che venne espulso Zola) e a giocare a calcio ovviamente sono sempre stato una sega. Le mie conoscenze del giuoco amato da tutti si basavano su Holly e Benji, e l’unica cosa che sapevo fare bene era dire “ultimo in porta” prima degli altri. Non era certo un bel curriculum. Ma il regalo di mio nonno era la Soluzione.
Andai a vedere i poveri disastrati che si allenavano e mi accorsi subito che in realtà non giocavano a calcio: era come se dei giocatori di rugby giocassero a cricket con delle ruspe. Violenza inaudita. Scivolate omicide, spallate da rianimazione, amputazioni. Per un fallo da dietro senza palla non ti prendevi neanche un rimprovero. Penso che solo la decapitazione in campo fosse punita con il cartellino giallo. La cosa mi piacque subito. Pensai: a) che avevo scelto la parte giusta, la violenza parte da qua verso là, e io sto qua: olè!; e poi b) l’uso della violenza lo trovavo giustificabile con motivazioni di tipo ideologico: nella mia weltanschauung da dodicenne ribelle cresciuto da genitori pseudosessantottini pensavo che ci trovassimo di fronte a un’ingiustizia sociale, loro ricchi, noi poveri, e che era giusto rovesciare questa infame situazione con ogni mezzo necessario: anche con una gamba tesa a metà campo. Giocavamo a pallone, ma in gioco c’era ben altro. Rovesciare. Con ogni mezzo necessario.
Pensando a questo varcai l’incerta linea bianca che delimitava il campo, naturalmente con il mio fantastico pallone/chiave del successo sottobraccio. Quel giorno non mi ero lavato né pettinato e indossavo i vestiti peggiori trovati in casa (rubati da una busta che mia madre aveva messo da parte per la Caritas) nel tentativo di farmi accettare. Ma sappiamo tutti che, pur camuffato da Oliver Twist, se non avessi avuto quel pallone sottobraccio dopo tre passi sarei morto. Ma per fortuna ce l’avevo. E mentre mi avvicinavo la squadra intera mi guardava senza mai staccare gli occhi da quella fantastica sfera bianca firmata Adidas. Palloni così li avevano solo rubati. Ma questo potevano usarlo quanto volevano in cambio della mia amicizia e ovviamente di una mia presenza in campo sicura per le prossime duemila partite. Queste erano le mie condizioni. I pezzenti acconsentirono, pur non nascondendo una smorfia di disprezzo per la parola amicizia. Iniziai ad allenarmi con loro ogni pomeriggio e grazie a mio nonno e alla multinazionale Adidas diventai loro amico. Scoprii che per quanto violenti ignoranti puzzolenti e vestiti male, una volta conosciuti erano molto più simpatici di quelli dell’altro gruppo. Ed erano anche più bravi a ruttare.
C’era un piccoletto molto bravo che tutti nel quartiere chiamavano Zola (forse perché era piccoletto) e si diceva che sicuramente sarebbe finito in una grande squadra – ed effettivamente qualche anno dopo sparì del tutto, molti dissero che andò nelle giovanili del Cagliari, ma io purtroppo scoprii l’orrenda verità: era andato in un altro paese a lavorare come manovale (ah, Baggio Baggio, quante cose sarebbero andate diversamente se non avessi sbagliato quel rigore…). Poi c’era il megafreak, uno storpio addirittura più magro di me con i capelli grigi e gli occhiali rubati al padre morto l’anno prima (lui diceva: mio padre è partito a lavorare fuori. In realtà il padre era un noto alcolizzato del quartiere che tutti chiamavano il Merda ed era morto di cirrosi epatica. Tutto quello che gli restava di lui era il soprannome e quegli occhiali schifosi). Nonostante il figlio del Merda fosse un vero freak sfigato come non se ne fanno più, non mi era molto simpatico. Lo odiavo quando si faceva maltrattare fino allo sfinimento – e badate bene, sfinimento non suo, ma degli aguzzini. Lui sarebbe andato avanti così all’infinito. Forse la cosa gli piaceva. Nella mia weltanschauung di dodicenne freudiano cresciuto da genitori pseudointellettuali pensavo che quello era il suo modo di farsi accettare dal gruppo. Qualcuno doveva fare il freak che si prendeva le pallonate in faccia scatenando l’ilarità degli altri. E quel qualcuno era lui. Ma a volte esagerava. Va bene farsi prendere a pallonate in faccia, va bene farsi chiamare Merdina (in quel caso non era colpa sua: era comunque figlio di suo padre), va bene farsi dire che la mamma era questo e quest’altro e di notte sotto il ponte faceva questo e quest’altro, ma perché sparire nel bel mezzo della partita e riapparire cinque minuti dopo con un’evidente strisciata di merda nei pantaloncini bianchi dicendo “sono andato a fare una cosa”? (Da quel giorno la frase “sono andato a fare una cosa” è diventata il mio tormentone: ogni volta che mi viene chiesto dov’eri cosa fai dove stai andando mi porti con te rispondo “vado a fare una cosa” pensando a quel super freak di un nerd e ai suoi pantaloncini smerdati. Bei tempi? No.)
Insomma, si era cagato addosso e aveva fatto notare la cosa a tutti gli altri – e come decisero di reagire gli altri? Deriderlo? Troppo facile. Semplicemente lo rincorsero per tutto il campo per ucciderlo. Lui inizialmente tentò una patetica fuga, poi pensò che una buona idea fosse quella di rinchiudersi nello spogliatoio sbarrando la porta. Immagino la scena: arriva sudatissimo, si rifugia all’interno, sbarra la porta e finalmente riprende a respirare: è al sicuro. Di colpo, sente che non è solo. Si gira e vede i più spaventosi tossici del quartiere alle sue spalle: personaggi concepiti solo da Borroughs, corpi da insetti e facce da vampiri che lo guardano e sorridono minacciosi, immaginando di vedere una siringa alta un metro e cinquanta con gli occhiali. Probabilmente quando ore dopo uscì da lì le strisce sui pantaloncini erano diventate due, come quelle Adidas.
Ma non era il merdoso freak quello che odiavo di più. In fondo lui era innocuo, tranne per se stesso. Chi veramente non sopportavo era un arrogante presuntuoso stronzetto che tutti chiamavano Roby. Si chiamava Roberto? Non lo so. Lo chiamavano Roby perché era bravissimo aveva il numero 10 e il codino come Baggio? Ovviamente sì. Lo odiai dal primo istante? Affermativo. Lo odiavo perché era più bravo e più rispettato di me? L’intervistato non sa/non risponde, ma è lecito sospettare che la risposta sia sì. Comunque dal primo momento capii che era lui la fonte dei guai. Avrebbe rovinato il mio ambizioso programma. Che prevedeva: a) farmi includere nel gruppo dei poveri. Fase battezzata “Io avere pallone. Voi fare giocare me”; b) diventare il leader assoluto del gruppo. Loro le braccia, io la mente della rivoluzione armata/partita di pallone; c) vincere la Coppa del Mondo e/o il Pallone d’Oro, o almeno il torneo del quartiere. Ma capì subito che avrei avuto qualche problema. Un problema col codino.
Fin dal primo allenamento decise di umiliarmi in tutti i modi con finte, dribbling, capriole, e mentre cercavo di prendergli la palla mi ripeteva “guarda la palla! Non guardare me, guarda la palla!” cosa che io facevo, ma poi lui mi superava, si girava indietro e agli altri diceva “oh questo non guarda la palla, guarda me! Sarà innamorato!” e giù tutti e ridere. Dovevo fare qualcosa. Non potendolo battere su un leale piano sportivo (NB: lui era bravo, io no), presi in considerazione l’idea di eliminarlo fisicamente. Le pensai tutte: versare acido muriatico nella sua bottiglia, manomettere la sua bici, riempire un pallone di dinamite e poi lanciarglielo sperando che si esibisse in una delle sue solite acrobazie da esibizionista. Poi arrivai alla soluzione più semplice e brutale: l’eliminazione sarebbe avvenuta sul campo da gioco, davanti a tutti, perché tutti vedessero cosa succedeva a chi osava prendersi gioco di me. Un fallo da dietro, una gamba tesa, qualcosa che gli disintegrasse il ginocchio e lo facesse restare in panchina per il resto della sua vita.
Nelle mie notti deliranti disegnavo ossessivamente un pupazzo con fattezze simili alle sue (in pratica: col codino) seduto in sedia a rotelle e sopra ci scrivevo “Ciao! Potevo essere un campione ma siccome ero troppo stronzo sono diventato storpio. Mi piscio sotto e mi devono cambiare il pannolino tre volte al giorno”. Osservavo la mia opera e sghignazzavo, ma allo stesso tempo mi veniva il sospetto che forse ero io che avevo qualcosa che non andava (…e anni dopo ho scoperto che era così. Scrivo questo testo da una casa di cura. Mi lasciano scrivere e fumare, in cambio io non devo urlare di notte e soprattutto non devo aggredire tutti quelli che hanno il codino). In più, avevo un sogno ricorrente.
Il mio sogno ricorrente era che al piccolo Roby esplodesse il cuore senza motivo durante una partita e che la squadra si trovasse senza il suo attaccante migliore proprio a un minuto dalla fine. E ovviamente, c’era un rigore da tirare. A quel punto allenatori giocatori il presidente della repubblica e la stampa sportiva venivano a casa mia e in ginocchio mi chiedevano di intervenire per segnare il gol che regalasse la vittoria alla squadra (il fatto che la panchina straripasse di altri giocatori e che la partita non potesse essere sospesa per andare a cercare un giocatore a casa ovviamente nel mio sogno non lo prendevo minimamente in considerazione). Io inizialmente facevo il prezioso – mah non so ragazzi, veramente avrei tante cose da fare… devo finire questo galeone con i Lego… – poi accettavo, venivo portato sulle spalle dai miei compagni che mi posizionavano nell’area di rigore, e durante il tragitto venivano intonati canti in mio onore. Lo squallido campetto di quartiere si trasformava nel Maracanà e dagli spalti si sentiva urlare solo il mio nome. Negli occhi del portiere avversario vedevo la paura e il terrore: sapeva benissimo che contro di me non poteva niente. Io non prendevo nemmeno la rincorsa. L’arbitro fischiava, io calciavo la palla che passava attraverso il portiere bucandogli la pancia ed entrando in rete. L’arbitro giudicava il gol regolare, i resti del portiere venivano portati via e uniti a quelli del Codino, bruciati insieme e poi, durante una solenne cerimonia, buttati in un cassonetto. Poi di solito mi svegliavo e mia madre mi diceva che dovevo andare a scuola.
Qualche giorno prima della partita andammo a spiare gli allenamenti dei nostri avversari. Sembravamo una squallida parodia delle piccole canaglie. In realtà Roby e gli altri prendevano la cosa molto seriamente: era una vera missione di ricognizione. Conoscere il nemico. Trovare il suo punto debole. Annientarlo. Ma dopo trenta secondi scoprimmo che lì, almeno da lontano, punti deboli non se ne vedevano. Quando arrivammo stavano facendo qualcosa che noi avevamo visto solo in Holly e Benji. A turno calciavano la palla, colpivano la traversa esattamente al centro, prendevano la palla al volo e la tiravano in rete di testa. Uno dopo l’altro così, senza mai sbagliare. Poi si misero a parlare di “schemi” (“Ha detto schermi? Che schermi usano?” “No ha detto scemi!” “Io ho sentito schermi, o forse vermi. Che cazzo hanno in mente?”), cosa che ovviamente sconvolse tutti, visto che noi di vermi, schermi, schemi non ne avevamo mai usato. Prima di andare via Roby e altri due bulli entrarono di nascosto negli spogliatoi, pisciarono dentro le borse, poi uscirono e dopo aver bucato qualche ruota di bicicletta, senza alcun motivo diedero un pugno in pancia a Merdina e decisero che la missione finiva lì.
Quel pomeriggio ci allenammo col triplo della solita passione, e ogni volta che calciavamo la palla immaginavamo che fosse la testa di uno degli avversari (ehm… forse non tutti. Diciamo che la mia palla aveva il codino). Ma poi a un certo punto, dopo aver confabulato a lungo, Roby e il piccolo Zola, leader riconosciuti in quanto unici giocatori in grado di giocare a calcio senza per forza uccidere, decisero che durante la partita non avremmo dovuto usare la violenza senza motivo. “E’ quello che si aspettano! Facciamo vedere a quei coglioni che invece sappiamo giocare!”. Non posso dire che la cosa venne accolta con entusiasmo, anzi diciamo che tutti lo guardarono come se avesse appena proposto di mollare tutto, buttare a terra i vestiti e andare a salvare i bambini dell’Africa cantando in coro Alleluia. Insomma, tutti in quella squadra usavano i falli in campo come strumento di rivalsa sociale. In quell’ingiustizia infinita chiamata società tu sei bello e vestito bene, hai i soldi e dei bravi genitori e baci le bocche delle ragazze, che noi vedevamo solo in due dimensioni, ma in campo io ti do calci negli stinchi e gomitate in pancia, stronzo! Perché rinunciare a questo? Perché? Ma Roby era Roby. Aveva il numero dieci, un inspiegabile fascino, era rispettato, era forte, aveva sto cazzo di codino, e insomma alla fine la squadra accettò a malincuore la decisione del suo capitèn. (Ehm… anche qui, forse non tutti. Diciamo che un tipo magrolino che fino a qualche tempo prima aveva i capelli biondi trovò la decisione del capitèn una stronzata senza senso e decise che lui, motivo o non motivo, avrebbe fatto uso di violenza come e quanto voleva. Rovesciare. Sempre. E battere il codino. Con ogni mezzo necessario.)
Finalmente arrivò il grande giorno. Noi contro loro, la partita evento. La nostra occasione di fargliela vedere, a quei porci. E soprattutto la mia occasione di eliminare quello squallido tentativo di emulazione di Roby Baggio. Della partita in realtà non ricordo molto (lo so, in teoria era l’unica cosa che dovevo raccontare, ma evidentemente le medicine che mi danno qui mi giocano brutti scherzi. Tenterò un veloce riassunto). Primo tempo senza emozioni, zero a zero, Roby ancora vivo. Io quasi, visto che una partita intera non l’avevo mai fatta e l’aria iniziava a mancarmi. Secondo tempo, segna la squadra avversaria. Un ricco coglioncello con i capelli rossi tipo Summer che a calcio manco ci sapeva giocare, non si sa bene come e perché ma era riuscito a metterla dentro. Ingiustizia sociale 1000, nostro morale meno 50. Il portiere rinvia, la palla arriva a me, la tengo meno di un secondo perché mi viene subito paura, la passo e spero che non ritorni più da me. Per fortuna l’azione va avanti, la palla finisce tra i piedi di Roby che la mette dentro. Metà quartiere, tossici compresi, esulta senza pudore. Uno a uno.
A quel punto potevamo anche perdere 150 a 1, ma un gol era stato fatto e quello bastava – almeno a me. Passano dieci minuti. Contropiede. Mezza squadra avversaria che viene contro di me, unico difensore rimasto nella propria area. Mi sembrava di stare in mutande in mezzo a un’autostrada con degli autorimorchi che venivano verso di me a tutta velocità. Capisco che devo fare qualcosa. Mi lancio verso quello con la palla e gliela tolgo dai piedi con elegante & spettacolare abilità. O almeno così pensavo di aver fatto. Mi accorgo che il gioco è fermo, qualcuno mi insulta e l’attaccante che fino a un attimo prima aveva la palla è a terra che si tocca il ginocchio e piange. Fallo. In area. Durante la partita evento. In pratica una tragedia.
Il Codino si fa strada e si piazza davanti a me per insultarmi. Mi spinge, anche. Ma io non reagisco. Mi dicono che sono stato ammonito. I ricchi tirano il rigore e passano in vantaggio per colpa mia, come i miei compagni di squadra mi ricordano ogni cinque secondi. Soprattutto il Codino ci tiene a ricordarmi che è tutta colpa mia che non valgo un cazzo avevamo detto niente falli e io so fare solo quello e mia madre sotto il ponte fa questo e quest’altro. Insulti verso me e mia madre 1000, mio odio 6 milioni. Ma nella mia weltanschauung di dodicenne pacifista cresciuto da genitori pseudoghandiani so che non è giusto reagire a un offesa con un’altra offesa. Ma d’altra parte avevo già visto troppi film con Charles Bronson, e il desiderio di sangue e di ginocchi spaccati si faceva strada. Decido che è il momento. Fanculo la partita, fanculo Ghandi, fanculo tutto. Conta solo la mia vendetta. Devo uccidere Roby Baggio e strappargli il codino e poi ballare sul suo scalpo come un indiano.
Centrocampo, parto a tutto velocità verso il codino, che in quel momento è senza palla. Ho deciso di arrivare in scivolata e schiacciargli la caviglia – uno dei miei falli preferiti. E’ di spalle e non sospetta niente. Ancora non lo sa, ma tra poco non potrà più camminare. A mezzo metro da lui però metto male il piede, cado, sento uno strano crac, il mondo mi crolla addosso, io crollo addosso al mondo, e mi ritrovo a terra con le due squadre intorno che mi guardano per capire se sono ancora vivo. Il Codino è il più preoccupato di tutti, mi ripete in continuazione come stai come stai, poi mi prende in braccio e mi porta fuori dal campo. Mi toglie la scarpa, controlla la caviglia e mi dice di stare tranquillo, peccato perché stavi anche giocando bene, passa tutto, non ti preoccupare. Io piango. Lui mi ripete di non preoccuparmi e commosso mi sussurra “Li batteremo, vedrai”. Mi sembra di stare in Vietnam. Io in realtà piangevo pensando alla mia sconfitta personale, condita con l’atroce umiliazione di essere stato salvato proprio dalla persona che stavo tentando di uccidere. Non era andata come pensavo. Per niente. Da terra vedo Roby rientrare in campo. Come se non bastasse, da lontano mi fa l’occhiolino. Io volto la faccia dall’altra parte, tentando di cancellare quell’orribile visione. Lui – non io – doveva essere a bordocampo con il piede fuori uso. E io dovevo essere in campo a prendere il controllo della situazione e a fare gol di rovesciata da metà campo e ad essere portato in trionfo da tutti e a baciare le bocche delle ragazze in tre dimensioni e ad avere genitori pieni di soldi e un codino e la maglia numero dieci. A terra capisco che il mio egoismo ha rovinato la partita di quei poveri pezzenti. Se perderanno la loro battaglia, sarà tutta colpa mia, che a mia volta ho perso la mia. Singhiozzo. Poi sento urlare “Rigore!”. Mi giro verso il campo, vedo Roby che posiziona la palla e il portiere che lo guarda spaventato: sa che contro di lui non può niente. E’ il rigore decisivo. Prende la rincorsa, tira e…
Beh, a voi decidere se la palla entrò dentro oppure colpì la traversa per poi andare a finire nello spazio profondo. Io, per concludere, vi dico solo che in quel momento, a terra, sul mio viso apparve una smorfia di felice, infinita soddisfazione.
Commenti
Una risposta a “Ultimo in porta (riciclato)”
eh me lo ricordo…